di Emanuele Bellintani
L’Onorevole Luciana Castellina è tornata a Berlino per una serie di appuntamenti: presso la libreria Mondolibro ha presentato il suo ultimo libro “Guardati dalla mia fame”, incentrato sulle lotte bracciantili in Puglia nell’immediato dopoguerra.
Presso l’Istituto di Cultura Italiana ha invece partecipato alla tavola rotonda di presentazione dell’edizione tedesca di “Il sarto di Ulm- una storia possibile del PCI” – “Der Schneider von Ulm – eine mögliche Geschichte der KPI” di Lucio Magri. La giornalista e scrittrice ha concesso una intervista in cui parlando di storia, di cultura e di politica, sono state delineate le contraddizioni di un passato rimosso e di un futuro ancora da inventare.
Il periodo compreso tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e gli inizi del cosiddetto “miracolo economico” è sparito dalla storiografia ufficiale e soprattutto dalle riflessioni del mondo politico-culturale di sinistra: come spiega questa forma di amnesìa?
Non credo si tratti di una amnesìa, ma di una precisa operazione politica, ovvero far dimenticare e cancellare quel periodo e più in generale il ventesimo secolo che è stato dipinto come un secolo di orrori e di errori. Certamente ci sono stati ma il novecento è stato anche il secolo di grandi avanzamenti e di grandi lotte sociali. Il movimento operaio dalle condizioni di fine ottocento ha via via conquistato il welfare state, l’istruzione di massa, i diritti delle donne; e poi ancora tutti i movimenti di liberazione del terzo mondo. È stata compiuta una operazione di risposta a tutto questo processo per bloccarlo e presentarlo ai più giovani come un secolo di disastri: cancellare il passato è il modo migliore per cancellare l’avvenire; se non si ha la cognizione di come le cose sono cambiate, non può capire che potranno cambiare ancora e si rimane bloccati in questo presente. La leadership del Partito Comunista Italiano e quella del Partito Socialista Italiano, e più in generale tutta la socialdemocrazia europea, hanno contribuito a questa cancellazione perché era il modo migliore di poter dire che “questo è il migliore dei mondi possibili”; per il Pci questa è stata una vera rottura, una decostruzione della storia e dell’identità che è servita a rifarsi una verginità.
La storia politica di fine anni Quaranta ci racconta di una intensità a tratti incredibile: una classe intera in lotta per la propria dignità, partiti politici interni al proprio popolo di riferimento ed un insieme di congegni di solidarietà e resistenza sindacale che davano energia alle lotte sociali. Oggi, con un sindacato indebolito, partiti ridotti al lumicino, leader distanti dal popolo che vorrebbero rappresentare ed una diffusa cultura individualista, quanto è importante recuperare il patrimonio ideale e conflittuale del dopoguerra?
Io credo che la costruzione della democrazia in Italia sia stata caratterizzata da una specificità partecipativa molto intensa nel dopoguerra. La sensazione che la democrazia fosse partecipazione attiva alla politica e alla deliberazione delle decisioni: la democrazia è questo, non solo i diritti che ne riducono il significato. Quel livello di partecipazione, il protagonismo delle masse, ha posto le condizioni per un cambiamento profondo della società: lo stesso Pci, diversamente da alcuni suoi partiti fratelli, non era un partito di èlite o di avanguardia, bensì un partito di massa che aveva la capacità di imporre una spinta dal basso pur stando all’opposizione.
Tutti citano l’articolo 3 per la parte sulla “rimozione degli ostacoli che limitano il diritto alla libertà e all’uguaglianza”, ma quell’articolo dice soprattutto che il principale dei diritti dei cittadini è quello di contribuire alla deliberazione e alle decisioni della vita politica. Questo impoverimento della democrazia è il tratto più caratteristico di quello che è accaduto e in parte viene espresso dall’astensionismo e dalla perdita dell’idea di una collettività responsabile. Quando nel 1973 venne fondata la Trilateral, l’organismo transnazionale di Rockfeller, Kissinger e diversi poteri forti occidentali, si iniziò a parlare di “troppa democrazia” e del fatto che “la complessità dell’economia non può essere gestita dai parlamenti”. Dagli anni Ottanta in poi è esattamente quello che si è verificato: le decisioni fondamentali oggi non sono più prese dai parlamenti, ma dettate dal mercato e questo spiega anche la mancanza di fiducia nella politica; i partiti, inoltre, sono diventati così simili gli uni agli altri nello stesso orizzonte economico.
Nel suo libro si parla apertamente di violenza popolare: la fame e l’autodifesa dalla repressione scelbiana sono state l’innesco, ma secondo lei quanto contava l’idea, ancora diffusa tra le masse popolari, di essere prossimi alla “rivoluzione” e alla resa dei conti?
Rivoluzione è una parola grossa, pensavano semplicemente che finalmente era arrivato il momento della giustizia che non è una rivoluzione ma una conseguenza della libertà. C’era la volontà di rimuovere il potere che fin lì aveva governato: la rivoluzione è un atto illegittimo di insubordinazione, mentre lì c’era la legittima aspettativa -una attesa messianica- di una nuova stagione di cambiamento. Certo, i braccianti manifestavano con cartelli con scritto sopra “Viva l’Unione Sovietica” perché lì era stata data la terra ai contadini, ma in un certo senso, caduto il fascismo, la rivoluzione c’era già stata.
Lei ha raccontato dei suoi viaggi nella Germania Est negli anni Cinquanta, avvenuti in modo “illegale” dato che lo Stato Italiano non permetteva ai comunisti di espatriare nei paesi estranei alla Nato: in quel clima e in quell’epoca che idea si era diffusa riguardo la neonata Repubblica Democratica Tedesca?
È difficile da dirsi, perché all’epoca se l’Unione Sovietica era popolare, la Germania dell’Est non lo era –soprattutto perché non erano popolari i tedeschi-. Io mi ricordo che passai più volte di qui per andare “dall’altra parte”. Una volta feci un viaggio intero nella DDR, quando una delegazione della FGCI venne invitata dalla FDJ (l’organizzazione giovanile della Germania Est) e mi ricordo delle campagne in cui la riforma agraria aveva modificato l’assetto economico-produttivo, mentre a Occidente permanevano esempi di grande latifondo degli junker. Le zone agricole della DDR erano come il nostro meridione e quindi considerate “arretrate”, ma proprio lì erano state organizzate scuole e servizi capillari che mi colpirono molto. Ho anche un particolare ricordo di quando andavamo a sentire Brecht al Berliner Ensemble . Credo ci sia poi stata una lenta degenerazione, la cui fase più grave durante il breznevismo che ha avuto riflessi significativi anche nella Germania Est.
Nell’anniversario della caduta del Muro lei ha ricordato alcune criticità rispetto alla cosiddetta “rivoluzione pacifica” del 1989, tra cui il fatto che le promesse di libertà e ricchezza fatte dall’occidente non sono state mantenute. Venticinque anni dopo è possibile tornare a parlare di socialismo?
Intanto bisogna avere ben chiaro il concetto di socialismo: per me è la possibilità di coniugare finalmente libertà e uguaglianza e rimane un traguardo a cui arrivare. Per ora non ci è riuscito nessuno come ad esempio non c’è riuscita la rivoluzione francese che ha introdotto maggiori libertà ma non l’uguaglianza, né la rivoluzione sovietica che per raggiungere l’uguaglianza ha abolito la libertà. Non voglio però rinunciare all’idea di un socialismo che è la ricerca di una società che riesca a garantire entrambe. Come farlo e che tipo di sistema adottare resta ancora indeterminato, ma questo sistema irrazionale in cui viviamo oggi può suggerirci molto.
In Italia oggi la figura di Matteo Renzi ed il suo approccio politico sembrano egemoni: lei come spiegherebbe il fenomeno del “renzismo”?
Il renzismo è l’ultimo risultato di un processo iniziato molto tempo prima, ovvero quello della deliberata distruzione dell’identità, della memoria e di tutto ciò che era la forza della sinistra italiana. Già negli anni Ottanta si evidenziava la crisi della politica e dei partiti: si potrebbe dire che il Pci si era sciolto dieci anni prima del 1991, essendo già cambiato molto; la politica era ormai tutta concentrata nelle sedi del potere, nelle istituzioni locali e non più come moto partecipativo del popolo. Più in generale la politica lentamente è tornata ad essere affare per “lor signori”, i quartieri popolari delle grandi città che erano pieni di vita sono stati desertificati culturalmente. Tutto questo, all’interno di un processo storico, ha portato all’idea che “democrazia” fosse sinonimo di “decisionismo”: il trapasso dagli anni Ottanta agli anni Novanta è stato drammatico, così come l’epoca di Tangentopoli dove si è sentita forte la crisi dello Stato. La politica è diventata mera gestione del potere e ha allontanato i cittadini dalla partecipazione. Solo in coda è arrivato uno un po’ bulletto che ha iniziato a dire “decido tutto io” e “non perdiamo tempo in chiacchiere”. E non gli è nemmeno così facile perché la società italiana è molto più viva di quanto non si pensi, basta vedere le mobilitazioni dei lavoratori della scuola e degli studenti, così come tutte le opposizioni sociali che trova in giro per il Paese; una certa tradizione della “politicità”, anche se frantumata e caotica, è rimasta e non si riconosce nei partiti.
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