di Michela Buono
Lei ha studiato al Conservatorio di Milano con Angelo Paccagnini per quanto riguarda la composizione e la musica elettronica e con Niccolò Castiglioni. La musica classica è un punto di partenza fondamentale ed anche formativo, cosa ne pensa?
Penso che lo studio della teoria musicale, del solfeggio e della storia della musica dovrebbero essere una necessità primaria per l’istruzione di un popolo.
Ascoltare e consumare musica con la consapevolezza di come è fatta e su quali parametri acustici, semiografici, psicologici, diventerebbe un valore aggiunto straordinario per districarsi tra generi e stili, coscientemente e fuori da imposizioni di gusto e di mercato. Saper suonare uno strumento, anche solo a livello dilettantesco sarebbe una ricchezza vera per tutta la vita di ogni persona, a prescindere dalla professione e dalle condizioni economiche. La cosiddetta musica classica, che preferisco chiamare musica d’arte, è una parte imprescindibile di tutta la storia della musica in generale in quanto musica scritta e tramandata attraverso il linguaggio dei segni musicali occidentali; la scrittura musicale, la sua lettura, sono i fondamenti per qualsiasi stile musicale e non tolgono nulla alla spontaneità della musica cosiddetta leggera, quella che non ha la vera necessità di essere tramandata come scrittura. La musica in buona sostanza è un’arte molto tecnica, prevede uno studio fisico e teorico molto profondo e raffinato e “crudele”, faticoso, ma più si va in profondità con lo studio maggiore diventa la gioia e la possibilità creativa e espressiva di ogni individuo. Ai maestri con cui ho studiato vorrei aggiungere Flavio Testi, sempre al Conservatorio di Milano, cui debbo molte preziose lezioni sul melodramma.
Figlio delle scrittore e giornalista Giancarlo Testoni e pronipote del poeta Alfredo Testoni. Quanto hanno inciso queste due figure nella sua carriera?
Mio padre Giancarlo era famoso come “paroliere”, scrisse più di tremila canzoni in poco più di un ventennio dalla fine della seconda guerra mondiale e lavorò con i più importanti compositori di canzoni italiani della sua epoca, tra questi anche Nono Rota, contribuendo alla nascita della canzone come forma d’arte applicata all’industria della radio e poi del disco, fondò la prima rivista italiana di Jazz, Musica Jazz, appena finita la guerra, dopo aver coltivato, nel segreto delle cantine di Bologna, la passione per questa nuova musica americana che era proibita dal regime fascista ma che riusciva a conoscere con l’ascolto clandestino dei primi dischi importati illegalmente dagli USA grazie ad amici residenti laggiù, scrisse anche la prima enciclopedia italiana del jazz e ha lasciato anche incompiuta la prima, credo, biografia italiana su G. F. Haendel. Purtroppo è mancato ancora giovane e di lui ho un ricordo vivo ma soprattutto un vuoto affettivo incolmabile, fu lui a farmi prendere le prime lezioni di pianoforte verso i sei anni con la professoressa Tissoni a Milano, la mia città. Sono certo che sarebbe stato felice di vedermi diventare un compositore. Il mio prozio Alfredo, drammaturgo, poeta e capocomico bolognese, amico di Trilussa e D’Annunzio, scrisse per il teatro tra la fine dell’800 e i primi del 900 in dialetto e in italiano, la sua commedia più famosa, “il cardinale Lambertini”, trasposta anche cinematograficamente dal grande attore Gino Cervi, è il simbolo del carattere e di pregi-difetti dei bolognesi e tocca corde ancora attuali nella vita di quella città e non solo…Bologna gli ha intitolato una strada e un teatro. Mio padre e io abbiamo forse ereditato la parte creativa del nostro essere da lui.
L’esordio come compositore nel 1978 al “MusicWorkshop UNESCO” di Copenhagen appena ventenne, Lei è stato uno dei fondatori del movimento Neoromantico musicale italiano. Una sorta di ritorno al passato, come punto di riferimento, per un nuovo stile compositivo?
Alla fine degli anni settanta, appena ventenne, dopo aver concluso gli studi classici, entrai in Conservatorio e cominciai a studiare la musica elettronica, allora di gran moda. Poi con Castiglioni iniziai lo studio della Composizione, Armonia e Contrappunto, con particolare riferimento al Madrigale cinquecentesco. L’incontro in conservatorio con altri miei coetanei apprendisti compositori fece scattare la scintilla creativa in una direzione diversa e contrapposta a quella dei nostri cosiddetti maestri. L’atmosfera allora che circondava la musica contemporanea era pesante, fatta di dogmatismi e di regole linguistiche che io e gli altri giovani ribelli trovavamo assurde, inconcludenti, tutte al servizio di un conseguimento di risultati inefficaci all’ascolto. Insomma ci dava tremendamente fastidio sentire musica così brutta perché scritta male ma così politicamente appoggiata e brutalmente imposta nelle sale da concerto da uno stuolo di super-maestri talebani, calvinisti, sordi a qualsiasi riferimento alla grande recente e ancora perfettamente viva tradizione del novecento, incarnata dagli amatissimi Maestri come Stravinsky, Prokoviev, Sostakovich, Ravel, Debussy, il nostro melodramma, Puccini e Respighi, eccetera. Perché rifiutare i risultati meravigliosi di questi modelli straordinari? in nome di una ricerca senza fine di qualcosa di nuovo a tutti i costi, di mai udito, di una musica senza memoria? Intanto il pubblico cominciava giustamente a staccarsi da questa avanguardia sorda e cieca e noi prendemmo il coraggio e cominciammo, ancora studenti, a scrivere un’altra musica contemporanea. Così è nato quel movimento, che tra alti e bassi è durato un decennio e ha sicuramente cambiato una parte consistente della musica contemporanea italiana e forse anche mondiale. Che io sappia, solo negli USA ci fu un movimento simile, cominciato poco prima, di grandi autori ancora oggi in attività, che la critica definiva appunto neoromantici…fu da loro che la nostra critica affibbiò anche a noi questo nome, purtroppo connotandolo negativamente, in senso passatista e conservatore. Invece la vera rivoluzione era la nostra ma la critica militante musicale era allora legata mani e piedi a quella corte di autori, editori, direttori artistici militanti per la stessa folle battaglia distruttiva verso la tradizione moderna. Giancarlo Menotti e Vieri Tosatti furono le prime vittime della stessa generazione dei loro boia, colpevoli di saper scrivere bella musica, comunicativa, piacevole, espressiva, colpevoli di piacere al pubblico. Noi più giovani dovevamo guardare indietro per andare avanti nel modo giusto, non volevamo conservare ma tramandare, essere parte attiva di quella memoria musicale moderna che amavamo e volevamo emulare e fare nostra. Questa era vera rivoluzione antiaccademica, la vera accademia era il rigor mortis dei linguaggi atonali delle avanguardie post Darmstadt, la loro violentissima arroganza di mediocri artisti senza altre idee che i diktat e i tabù del ”così non si fa più”.
Nel 1981 l’esordio alla Biennale di Venezia con grandi riconoscimenti di pubblico e di critica, sancisce “l’inizio” della sua carriera. Molte le commissioni in Italia e all’estero. Mi pare di capire che il periodo “d’oro”, per i giovani compositori, sia stato tra gli anni 80 e 90. I giovani compositori trovano spazio oggi per le loro composizioni?
Negli anni Ottanta e Novanta in Italia esistevano per i giovani autori molte possibilità di ascoltare esecuzioni delle proprie musiche, esistevano orchestre sinfoniche, pensiamo a quelle Rai, moltissimi festivals che puntualmente commissionavano e registravano contribuendo alla diffusione di nomi e titoli. Io stesso ancora studente scrissi il mio primo brano per violino e orchestra per la defunta orchestra dell’Angelicum e l’anno seguente ricevetti da Giorgio Vidusso la commissione per la Prima Sinfonia con l’orchestra Rai di Milano. Oggi è tutto più difficile per i giovani ma anche per la mia generazione, scomparse molte orchestre, risorse economiche irrisorie concesse dallo Stato per la musica, festival tutti votati al repertorio, insomma un disastro e un deserto. Il rimedio francamente non riesco a immaginarlo ma le cause sono tante e tutte hanno una buona percentuale di colpa per questo stato di cose. Ci sono pochi autori, che definirei di regime, autorizzati a spartirsi il poco che resta e qualche piccolo spazio per tutti gli altri, giovani e meno giovani. Molta confusione, poca programmazione, paura di osare, unita a scarsa competenza dei nuovi “padroni” delle istituzioni, pilotati da interessi più o meno oscuri, nella sostanziale indifferenza del pubblico che ha da tempo rinunciato ad avere fiducia per la musica nuova, sentendosi troppo spesso tradito da anni di pessima musica, noiosa e inascoltabile. Gli interpreti, anche loro, cercano di salvare il salvabile e scappano dalla novità rifugiandosi nella sicurezza del “museo”, così hanno qualche possibilità di continuare a lavorare. La buona borghesia, quella dei salotti chic dove si pronunciano sentenze e processano intenzioni e tendenze, dove si celebrano nuovi eroi della cultura con l’avallo e il crisma del potere anche economico e lobbistico dei nuovi censori, si è sostituita al potere politico o meglio si è affiancata da tempo agli uomini di quel potere che occupano ancora e comunque i posti di comando nelle istituzioni musicali, lottizzando e parcellizzando, ciascuno nella propria zona di controllo e decidendo chi e cosa programmare e per quale opportunità concedere uno spazio o negarlo. Un autore, se vuole visibilità, deve cercare di essere nel posto giusto al momento giusto, deve possedere il dono di sapere con chi e come e quando essere alleato, sperando così di far parte del gioco, un piccolo gioco peraltro, ma pur sempre il gioco senza il quale non si hanno commissioni e esecuzioni. Molta ipocrisia, tonnellate di ipocrisia e piaggeria, viltà e falsità, maldicenza…insomma l’eterno repertorio umano per la sopravvivenza nella jungla crudele e frigida del mondo dello spettacolo e della cultura. Naturalmente ci sono delle eccezioni alla regola e allo squallore scontato di questo meccanismo.
Molti i generi musicali da Lei trattati. Si è occupato di opera, balletto, teatro, musica da camera, trascrizioni. L’opera “Alice” scritta tra il 1986 e il 1983, in tre atti, è stata rappresentata in prima assoluta al Teatro Massimo di Palermo nel 1993. Com’è nata questa idea e perché la scelta di un personaggio così “immerso” nel sogno.
Il teatro musicale ha avuto una grande influenza sulla mia passione per la musica in generale cominciando dal balletto però. Mia madre, che aveva studiato e danzato alla Scala, mi parlava fin da piccolo della danza e della bellissima musica per la danza, Caikovsky ma anche quei minori autori “artigiani” che mi attraevano con le loro seducenti facili melodie. Il palcoscenico, le punte, il tutù, poi Diaghilev e la mitologia dei Ballets Russes, Stravinsky! Stranamente solo negli ultimi dieci anni ho finalmente cominciato a scrivere molta musica per la danza. A mia madre devo anche la passione per l’opera, la sentivo spesso canticchiare arie di Puccini che sapeva a memoria e comunque in casa mia la musica, anche per il lavoro di mio padre, risuonava continuamente, tutta la musica, le canzonette e il jazz, l’opera e la musica sinfonica…mio padre aveva una collezione di migliaia di dischi. Verdi e Puccini, studiati e amati nella classe di Flavio Testi, ascoltati nelle grandi interpretazioni scaligere di quegli anni e poi le scoperte novecentesche fino a Janacek e Britten, passando per Strauss, più tardi il lento inesorabile avvicinamento a Wagner, tutta questa tradizione attraverso la parola scenica, il canto, mi sembravano la vetta massima che ogni compositore poteva ambire di raggiungere. Alcuni miei colleghi già si cimentavano con l’opera, genere che più di tutti l’avanguardia seriale disprezzava e ignorava come vecchiume; era logico che il nostro movimento di opposizione tenesse il teatro musicale come primo oggetto del desiderio, veicolo ideale per rispondere coerentemente al dogma della rivoluzione permanente, perché giustamente autori italiani, diretti discendenti di un passato così unico. Con la mia ALICE, contribuii con uno sforzo immane (tre atti, orchestra enorme, 12 cantanti e una durata di quasi tre ore) al progetto Opera che ci legava quasi tutti. Sicuramente questo genere, legato al canto e alla scrittura melodica, è stato un perno fondamentale del movimento neoromantico e lo è tuttora. ALICE è il risultato di un tentativo, a mio parere quasi del tutto riuscito, di coniugare la necessità della cantabilità del testo nel senso più tradizionalmente melodico, italiano, con un accompagnamento o commento sinfonico molto colorato e complesso, denso di contrappunto e animato da sempre mutevoli impulsi ritmici. La chimera di coniugare la musica vocale e quella strumentale in un unico corpo pulsante, avvincente, emotivamente sempre vivo e narrante, che con Wagner trova la sua prima incarnazione, mi affascinava e stimolava già ancora studente di conservatorio. Impresa difficilissima e rischiosissima, soprattutto per un compositore italiano. Il modello di Korngold, almeno nella meravigliosa Die Tote Stadt, mi ha dato un incoraggiamento in più, dopo lo studio approfondito delle opere di Richard Strauss. Il soggetto di ALICE era perfetto per me allora in quanto radicalmente antiverista e al contrario ricco di stratificazioni di senso e interpretazioni possibili attraverso le figure irreali dei suoi personaggi. Una strada aperta a ogni possibilità di ricostruzione del senso teatrale passando dal mezzo potente della fiaba che ricopre e trasfigura con la sua leggerezza le sfumature e gli abissi psicologici dei suoi eroi: con il librettista Bramati scegliemmo una visione addirittura tragica, trasformando la giovane fanciulla e i suoi sogni nello sguardo dell’Artista che immerso nella durezza della realtà e dei suoi rapporti di forza, comprende quanto sia grande la distanza tra la visone creativa della vita e la verità della stessa, quanto le persone sono spesso vittime e carnefici in un gioco di ruoli che abbassa il tono della poesia in un limbo, o meglio inferno, di mediocrità e inespressività. Alice scopre la crudeltà dei comportamenti umani, non ne comprende il motivo, esprime il suo disagio ma vuole difendere il diritto a esistere o coesistere con questa realtà, vuole affermare la possibilità che l’Arte sia mezzo per fare la vera rivoluzione possibile per gli esseri umani attraverso la Bellezza, l’etica della Bellezza, la redenzione forse anche dal male di esistere attraverso l’immaginazione. Alice fa questo attraverso il Canto, attraverso la sua fede nel Canto, Alice è per me il simbolo della Musica, del Suono, lo fa affermando il diritto all’Ingenuità dell’infanzia, crocevia dello spirito e del corpo, professa la necessità di un’Arte profondamente umana, in equilibrio tra istinto e ragione, tra logica e follia, nella libertà da ogni finzione e costrizione.
Nel 1983 la RAI Le commissiona la “Prima Sinfonia”, nel 1984 il “Notturno”, le “Variations”, l’orchestrazione del ciclo pianistico “Come passo l’estate” di Niccolò Castiglioni. Vengono ancora commissionati dei lavori al giorno d’oggi?
Come ho già detto prima, per la maggioranza degli autori le commissioni pubbliche sono scarse e molto difficili da ottenere, per alcuni altri invece sono più facili e scontate. I rapporti con i miei colleghi sono in verità poco frequenti ma ciascuno potrebbe descrivere situazioni molto diverse e non ci sono più certezze o regole infallibili da seguire per avere lavoro. Tutto è così precario e caotico, i rapporti personali sono diventati decisivi ma per ottenerli ci sono innumerevoli strade da percorrere e cose da sapere, un vero lavoro…ma quanto tempo può dedicare a questo lavoro un artista? Quanto tempo può sacrificare alla qualità dei propri contenuti andando ai concerti, alle cene, ai ricevimenti, nei salotti che contano? E spesso è complicato sapere dove e da chi e quando esserci…certo non ti invitano perché sei un grande artista, la ”cosa” in sé, l’opera d’arte, ammesso che a qualcuno interessi, non è il punto di partenza per ricevere aiuti o protezioni. Una visione pessimistica la mia certamente ma non credo sia distante dalla verità dei fatti, io forse ho il coraggio di dire quello che molti se non tutti pensano ma prudentemente tengono per sé. Mi hanno sempre “accusato” di dire quello che penso, di non essere mai stato…”sfumato”. Io credo nella forza delle idee e nella ricerca di una Bellezza espressiva senza compromessi, voglio sentirmi rivoluzionario in questo, non amo nascondermi dietro le convenzioni e i riti comportamentali, e pago il prezzo spesso per questo. Lo Stato dovrebbe ricominciare a credere nella possibilità che la cultura produce anche profitto, la musica anche danaro, almeno in una forma di benessere e crescita che può alla lunga generare nuove situazioni economicamente utili all’intera società. Commissionare arte, se i privati o mecenati sono del tutto assenti, deve essere un dovere di ogni Stato democratico degno di questo nome.
Le trascrizioni hanno riguardato Franz Liszt “L’albero di Natale”, suite per Orchestra, Robert Schumann, “Carnaval”, per orchestra. Non sono così frequenti le opere di trascrizione e di orchestrazione, come mai questo lavoro?
Ho sempre pensato che fosse normale per un compositore, e normale lo era per i compositori nel passato, rielaborare, orchestrare e variare le musiche degli altri autori. Stravinsky parla di necessità di amare e non di rispettare la musica degli altri autori e io sono perfettamente in sintonia con questo pensiero. Quando alla fine degli anni novanta mi chiesero di orchestrare Carnaval accettai con gioia non solo perché Schumann è uno dei miei autori più amati ma perché ho una grande passione per l’arte dell’orchestrazione e dei suoi segreti. Nel farlo naturalmente ho messo la mia vita e il mio suono, la mia concezione del timbro di uomo del novecento, in sovrapposizione, non in opposizione, al suono e timbro di Schumann, autore del pieno romanticismo ottocentesco. In alcun modo violentare la sua musica ma rendere omaggio al suo pensiero affiancandogli il mio con puro sentimento di partecipazione e cercando di aggiungere qualcosa di “moderno” alla sua verità che, come per tutti i veri grandi artisti, è fuori dal tempo e dalle sue mode. Con Liszt ho fatto qualcosa di analogo ma è stato più semplice perché quella suite è di una modernità straordinaria, enigmatica, si sente già tutto l’impressionismo e oltre…orchestrale era solo fare quello che già era presente nel testo per pianoforte, nel fraseggio e nella conduzione armonica e narrativa, decisamente visionaria e fuori dai confini temporali. Ancora studente orchestrai anche una piccola suite pianistica del mio caro maestro Niccolç Castiglioni che ebbe molte esecuzioni e ricordo con soddisfazioni fu approvata senza riserve dallo stesso che mi disse che non avrebbe saputo fare di meglio! La pratica di elaborare la musica degli autori che si ama è una delle attività più gratificanti per un compositore, una palestra tecnica ma anche un modo per sentirsi in simbiosi e in completo abbandono all’arte che ci fa vibrare l’anima e affratella con i nostri beniamini tanto studiati e ascoltati. Tutti gli aspiranti compositori dovrebbero praticare questa attività, che peraltro dovrebbe ancora essere assorbita negli studi accademici in conservatorio ma che è relegata all’ultimo anno di studi di composizione purtroppo. Spero di avere ancora qualche opportunità di mettere mano a musiche amate per orchestrarle, ce ne sono moltissime che amerei…Testonizzare!
La musica da camera occupa un capitolo importante nella sua produzione musicale. Molti gli strumenti a fiato presenti nei suoi lavori, c’è una particolare predilezione?
Anche se la musica da camera in Italia ha poco spazio ed è molto concentrata sul grande repertorio sette-ottocentesco, da una decina d’anni l’ho coltivata con grande passione e nel tentativo di trasferire nelle forme cameristiche classiche quel mio suono molto ricco timbricamente che è un poco il segno facilmente riconoscibile in tutta la mia musica. Fare questo lavoro di integrazione di molteplici sfumature con pochi strumenti a disposizione è una sfida psicoacustica e emotiva molto interessante e ricca di variabili e di possibili imprevedibili risultati. Bisogna concentrare al massimo e mantenere chiarezza nel racconto con molti meno mezzi e colori a disposizione, esperienza meravigliosa! Ho imparato e imparo moltissimo sul mio linguaggio e sulle mie idee sonore attraverso questa pratica anche se non penso necessariamente a degli interpreti di riferimento tranne nei brani recentissimi per ottoni e pianoforte, scritti per solisti giapponesi coinvolti in un progetto anche discografico. Non avevo mai scritto musica per corno o tromba e pianoforte, il loro repertorio è molto limitato e spesso confinato a brani scritti da strumentisti o da trascrizioni da altri strumenti. Ho accettato con grande entusiasmo perché sono curioso e amo le cose difficili, mi piace tentare strade nuove e accetto più facilmente di percorrere sentieri impervi per la mia natura di combattente. Credo siano musiche molto interessanti e ricche di fascino e non vedo l’ora di ascoltarle. Attualmente sto scrivendo 24 Preludi per pianoforte e questo strumento resta tra i miei preferiti insieme agli archi, la viola in particolare, cui ho dedicato due anni fa una Sonata. Presto affronterò il mio primo Quartetto per archi, l’età me lo permette!
Per il 2016 ha in programma di scrivere nuove composizioni? Pubblicazioni video e cd?
Quest’anno devo assolutamente terminare il secondo atto della mia nuova opera Leonce e Lena, seconda commedia di G. Buchner, il poeta tedesco del primo ottocento autore della famosa commedia Woyzeck (che Berg trasformò in Wozzeck). Molti anni orsono, poco prima di cominciare a scrivere la mia ALICE, mi interessai molto alle opere di G. Buchner, in particolare a Leonce e Lena. La fiaba mescolata alla feroce critica verso le certezze sociali, la malinconica introspezione e il gusto per il paradosso, il gioco dello scambio di ruoli, l’asciuttezza del linguaggio, la teatralità trasfigurata dall’estasi della parola poetica, tutto questo mi attirava e mi influenzava nella scelta della commedia di Buchner per adattarla a libretto per musica. Queste sono alcune motivazioni che mi spingono a mettere in scena e far cantare personaggi, che sono profondamente reali proprio perché “maschere”, archetipi. La lezione di Shakespeare rimane un faro di perenne ispirazione. Abbandonai in quegli anni l’idea perché non adatta ad un’opera di grandi proporzioni ma l’ho ritrovata e rivisitata dopo tanto tempo perché ho pensato a una nuova scrittura di teatro musicale da camera, con un organico strumentale ridotto e un ridotto numero di voci, più adatta ed efficace, oggi, alle esigenze di messa in scena dei nostri teatri. Per la prima volta ho affrontato la scrittura del libretto, adattando il testo originale (nella sua traduzione italiana) ai miei “ritmi” e al mio fraseggio melodico, non trovando difficoltà particolari ma con grande slancio e facilità; ho utilizzato una versificazione piuttosto libera ma sempre ascoltando il mio istinto prosodico tutto finalizzato all’ efficacia e comprensibilità del suono e del significato della parola. Ci sono come sempre tanti altri progetti cameristici, una Terza Sinfonia e un Concerto per pianoforte e orchestra, può anche darsi che il balletto mi conceda ancora una possibilità di scrittura dopo l’ultima fatica del 2015 “Combustioni” scritta per la coreografia di Emanuela Tagliavia, commissionata per la ricostruzione del rinato Teatro Continuo di Burri al Parco Sempione di Milano nell’ambito dell’Expo.
Una domanda che vorrebbe Le venisse posta alla quale nessuno ha mai pensato…
…Tra le tante possibili forse la più ingenua o apparentemente banale…perché scrivo musica? Potrei sinteticamente dire che è l’unica cosa che credo di saper fare oppure perché devo lasciar andare fuori da me tutti i suoni che mi stanno nella testa e nel cuore…oppure perché è il miglior modo per farmi amare dagli altri uomini e essere realmente sincero. Da giovane avrei azzardato che volevo fare la rivoluzione con la musica e l’arte…oggi più saggiamente mi limito a cercare la condivisione con la mia idea di Bellezza etica, sperando che a qualcuno interessi e che ne tragga un qualche umano beneficio.
Giampaolo Testoni , Milano 4 febbraio 2016
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