di Emilio Esbardo
Come ogni anno, il Festival di Letteratura Internazionale 2015 a Berlino si è svolto, dal 9 al 19 settembre, con un ricco e variegato programma, che ha spaziato dalla prosa alla lirica. Al Festival hanno partecipato 200 autori ed autrici.
Il Festival è stato diviso nelle sezioni “Letterature internazionali”, “Riflessi”, “Memorie”, “Visioni”, “Stazione meteorologica”, “Scritture giovani”, “Romanzo a fumetti”, “Arte della traduzione letteraria”, “Filosofia”, “Sulla situazione del femminismo”, “Nuove voci tedesche”, “Incontro di giovani autori”, “11 minuti”.
Tra i grandi nomi presenti vi erano, tra gli altri, Wole Soyinka, Navid Kermani, Javier Marías, Zeruya Shalev, Jenny Erpenbeck, Roddy Doyle, David Foenkinos, Michael Cunningham, Adelle Waldman, Richard Flanagan, Kazuo Ishiguro.
Inoltre il festival è stato un’ottima vetrina per le promesse del panorama letterario mondiale.
Il titolo dell’edizione di quest’anno era “re | fuge”.
Il 2 settembre 2015, ancor prima dell’inizio ufficiale, gli organizzatori sono riusciti a programmare un incontro con Ai Weiwei, che ha tenuto il suo primo evento pubblico in assoluto a Berlino e all’estero, dopo aver riottenuto il passaporto dalle autorità cinesi.
Nella gremita Philharmonie di Berlino, insieme al suo amico musicista e scrittore Liao Yiwu, vincitore del Premio Internazionale per la Pace degli editori tedeschi 2012, ha discusso, tra le altre cose, della situazione attuale in Cina.
Ai Weiwei, nato a Pechino, il 28 agosto 1957, è, forse, al momento, l’artista e attivista cinese, più conosciuto a livello internazionale.
Nel 2009, le autorità cinesi ne avevano oscurato il blog. Grandissima risonanza mediatica, aveva avuto, poi, il suo arresto nel 2011.
Le sue dichiarazioni, durante l’incontro nella Philharmonie, hanno deluso i media tedeschi, che si aspettavano un attacco feroce contro il regime cinese. Ha affermato di non voler essere etichettato esclusivamente come dissidente, anche se ha preso le distanze dal proprio governo, che ha definito come non democratico. In Cina, ha detto, i diritti umani non vengono tutelati.
A differenza di Ai Weiwei, Liao Yiwu ha un atteggiamento molto più radicale e duro, come traspare dai suoi libri e dalla sua musica. Entrambi hanno criticato l’assoluta mancanza di libertà di pensiero ed espressione artistica in Cina. Al termine dell’evento sia Liao Yiwu sia Ai Weiwei, hanno concesso selfie e autografi ai numerosissimi fan.
Il discorso di apertura del festival, intitolato “Cominciamo con l’inizio”, preceduto dalla musica di Edson Cordeiro e Rolf Hammermüller, è stato tenuto, il 9 settembre, da Javier Marías, uno degli scrittori, colonnisti e traduttori più famosi di Spagna.
Marías, da grande saggista, ha voluto porre l’accento della sua conferenza sul concetto di verità, che si riscontra non solo nella realtà ma anche nella finzione.
Dopo aver esordito nel panorama letterario nel 1971, a soli 19 anni, con il romanzo “Los dominos del lobo”, Javier Marías è divenuto uno scrittore molto prolifico ed ha ricevuto numerosissimi riconoscimenti, tra cui il Prix Femina étranger; il premio venezuelano Rómulo Gallegos, uno dei più prestigiosi al mondo in lingua spagnola; il premio Grinzane Cavour; l’America Award; il premio internazionale della letteratura IMPAC e il Nelly Sachs.
Fama nazionale ed internazionale, Javier Marías l’ha raggiunta, nel 1992, con la pubblicazione del romanzo “Un cuore così bianco”.
Ad introdurre lo scrittore spagnolo sono stati il direttore artistico dei Berliner Festspiele Thomas Oberender e il direttore del festival Ulrich Schreiber. Presenti erano anche personalità quali il cantante Wolf Biermann e Navid Kermani: entrambi, in passato, sono stati autori di due discordi nel Parlamento tedesco durante le celebrazioni della Costituzione della Repubblica Federale, che hanno avuto una grande eco mediatica in Germania.
Navid Kermani, non era presente solo come ospite, bensì come partecipante. Due ore dopo l’intervento di Javier Marías, ha presentato, in una sala gremita, il suo nuovo libro “Ungläubiges Staunen”.
Kermani, nato il 1967 a Siegen in Germania, è scrittore dalla doppia cittadinanza iraniana e tedesca. Quarto figlio di medici persiani, professore e uno dei più rinomati studiosi dell’islam, funge da importante mediatore tra l’oriente e l’occidente. Con i suoi libri si è preoccupato di far conoscere in modo più approfondito la cultura islamica agli europei. In Germania è famosissimo ed è stato premiato con prestigiosi riconoscimenti letterari quali Hannah-Arendt-Preis (2011) e Kleist-Preis (2012). Nel 2015 gli è stato consegnato Il Premio per la Pace degli Editori Tedeschi.
Nel suo ultimo libro, come scritto nel depliant del festival, “il suo sguardo volge ora al cristianesimo. Stupito, la considera una religione piena di sacrificio e azione, amore e meraviglia, irragionevole e insondabile, profondamente umana e divina”.
Il giorno seguente, giovedì 10 settembre, ho seguito gli appuntamenti con Haris Vlavianos, Peter Stephan Jungk e nuovamente Javier Marías.
Marías ha parlato del suo nuovo romanzo “Così ha inizio il male”, pubblicato in Italia dalla Einaudi, nel quale affronta il tema del desiderio e del tradimento in una coppia, della meccanica che spinge a commettere adulterio e dei sofferti processi che conducono poi al perdono.
La trama si svolge nella Madrid degli anni ’80, che fa ancora i conti con il recente passato franchista e con l’emergente “Movida madrileña”, segno della ritrovata democrazia: i giovani potevano finalmente uscire e riempire piazze e strade senza timori di repressioni, formando una cultura alternativa.
In questo clima, Juan De Vere, giovane e ambizioso, viene assunto come assistente dal regista cinematografico Eduardo Muriel, divenendo testimone della sua crisi matrimoniale con Beatriz Noguera.
Anche di Haris Vlavianos ho seguito due incontri: “Il sangue è più sottile dell’acqua” (10 settembre) e “In dialogo con Ulrich Schreiber sulla crisi e sul linguaggio” (11 settembre), che mi è sembrato molto più interessante, perché si è discusso di come i media e gli scrittori stanno affrontando la questione della crisi economica in Europa.
Vlavianos, autore greco, nato a Roma nel 1957, ha studiato Economia, Scienze Politiche e Storia presso le università di Bristol e Oxford. Al suo attivo ha la pubblicazione di numerosi saggi, 12 raccolte di poesia e di un romanzo autobiografico. Al momento insegna Storia e Scrittura Creativa presso l’American College of Greece ad Atene.
Vlavianos ha affermato, che i Media per capire bene ciò che sta accadendo in Grecia, debbono comprendere che la Grecia è tradizionalmente un’unione di tante piccole comunità, che vedono negativamente un governo centrale e le tasse. Da sempre, dunque, i cittadini percepiscono con diffidenza e sospetto lo Stato e viceversa. Al contrario la popolazione, segue, al momento, i lati più negativi dei politici, immersi in un sistema estremo di corruzione. Si commettono illegalità e ci si lava la coscienza con frasi tipiche quali “se questo lo ha fatto un politico, perché non debbo farlo anch’io?”.
Il conseguente profitto che ricavano, ad esempio, le banche con le privatizzazioni sono colpa dei politici, che non hanno intrapreso niente contro la crisi e la corruzione. Riguardo le campagne mediatiche Merkel=Hitler, ha spiegato lo scrittore, vengono portate avanti da quotidiani e riviste, che vogliono suscitare sentimenti popolari, per aumentare le loro tirature. E cita a sua volta il tabloid tedesco Bild, che usa lo stesso linguaggio popolare contro la Grecia.
Ho terminato la serata del 10 settembre, seguendo l’incontro con Peter Stephan Jungk, che ha parlato di sua nonna Edith Tudor-Hart, fotografa. Su di lei, Jungk ha pubblicato, in tedesco, la biografia romanzata, intitolata “Die Dunkelkammern der Edith Tudor-Hart: Geschichten eines Lebens” (Le camere oscure di Edith Tudor-Hart: Racconti di una vita).
La vita di Edith Tudor-Hart, classe 1908, è stata avventurosa e tipica di molti giovani dell’epoca. Arrestata per convinzioni marxiste in Germania ed esiliata in Inghilterra, ha intrapreso la carriera di fotoreporter e di spia per l’Unione Sovietica.
Debbo ammettere che non conoscevo Peter Stephan Jungk, ma leggendo la sua biografia, sono rimasto immediatamente interessato. Soprattutto, perché ha lavorato come assistente alla regia della riduzione cinematografica di uno dei miei libri preferiti in assoluto: “La donna mancina” di Peter Handke. Come sua nonna ha avuto una vita pellegrina. Nato il 1952 a Santa Monica negli Stati Uniti, ha trascorso la sua infanzia a Salisburgo, a Berlino ovest e a Vienna. Tra le sue altre tappe vi sono Parigi, dove attualmente abita, e Gerusalemme; Jungk è di origini ebraiche. Ha ricevuto premi importanti quali il Stefan-Andres-Preis e il Buchpreis der Salzburger Wirtschaft.
Il primo appuntamento di Venerdì 11 settembre, è stato l’evento “Ciò che io non voglio sapere” con Deborah Levy, scrittrice di origini sudafricane, che, a nove anni, è stata costretta a riparare con la famiglia in Gran Bretagna, perché suo padre, oppositore dell’Apartheid, era divenuta persona indesiderata. Queste esperienze traumatiche dell’esilio e dell’emigrazione si rispecchiano nel suo romanzo “Beautiful Mutants”. Tra i riconoscimenti ricevuti, vanno segnalati il Man Booker Prize e il BBC International Short Story Award.
“Ciò che io non voglio sapere” è il titolo di un pezzo teatrale autobiografico di Levy, attraverso il quale l’autrice spiega il perché le piace scrivere.
Gli incontri della sezione “Sulla situazione del femminismo”, sono stati tra i più frequentati del festival. Le sale erano sempre strapiene, soprattutto di ragazze. Grande attesa vi era per l’appuntamento con Laurie Penny, dedicato al desiderio e all’emancipazione delle donne. Con Frederike Kaltheuner, la giovane femminista, ha trattato gli argomenti del suo nuovo libro “Unspeakable Things: Sex, Lies and Revolution” (Cose indicibili: sesso, menzogne e rivoluzione).
Durante la discussione, mi è sembrato che Penny rifiutasse l’idea di amore eterno, di partner unico, perché diminuisce/inibisce il desiderio sessuale. Alla domanda della moderatrice Kaltheuner, cosa farebbe lei stessa se le capitasse di innamorarsi, ha risposto: “mi rifugerei nelle mie teorie femministe”.
Secondo Laurie Penny, femminismo, per le donne, significa avere il coraggio di esprimere se stesse, di essere vogliose e di partecipare attivamente ai rapporti di coppia, liberarsi di ogni freno in ogni ambito, non lasciarsi sminuire da tipiche frasi fatte, quale, ad esempio, “Damn she is a slut” (maledizione è una puttana).
L’amore romantico per Laurie Penny rappresenta una soluzione per sfuggire dall’amara realtà. Esattamente come lo era la religione per le famiglie povere ai tempi di Marx.
Le donne, ha dichiarato, sin da piccole, vengono abituate a porre l’amore al centro della propria esistenza. A dispetto degli uomini, che prendono e ricevono amore, le donne sono state istruite a dare amore e ad estenderlo in ogni campo della vita di tutti i giorni.
Sabato 12 settembre è stata una delle giornate più intense. Ho seguito 4 eventi con autori della Georgia, dell’Angola, del Sudan, della Nigeria, del Pakistan, dell’Indonesia, degli Stati Uniti, della Turchia e dell’Australia.
Il primo è stato quello con Zaza Burchzulade intitolato “Adibas – Fà finta di essere in guerra e di esserti vestito in modo sbagliato”.
“Adibas” è il titolo del libro, tradotto in inglese nel 2014, che racconta il comportamento del protagonista della storia, durante la guerra tra la Russia e la Georgia scoppiata nella notte tra il 7 e l’8 agosto 2008, conosciuta come secondo conflitto in Ossezia del Sud.
L’io narrante, incurante dei fatti gravissimi che stavano accadendo attorno a lui, trascorre le giornate nella capitale Tbilisi, conducendo uno stile di vita tipico dei giovani occidentali, tra piscine, tazze di cappuccino e acquisti di beni di consumo.
Nato a Tbilisi nel 1973, Zaza Burchzulade, ha studiato Arte ed ha intrapreso successivamente la carriera di giornalista, scrittore e traduttore. Le sue opere, inserite nel genere letterario pop, hanno avuto una grande eco ma gli hanno provocato anche inimicizie pericolose soprattutto tra i massimi rappresentanti religiosi. Già il titolo del suo primo romanzo “Mineral Jazz” designa la decadenza occidentale.
Le droghe, il sesso, la violenza, l’apoliticità e l’opportunismo caratterizzano la quotidianità delle nuove generazioni, che la società tradizionalista georgiana non desidera però che vengano discusse dall’opinione pubblica.
Per questo motivo Burchzulade ha deciso di emigrare all’estero, dopo che i suoi libri sono stati bruciati e dopo essere stato calpestato in strada nel 2012. Attualmente vive e lavora a Berlino. Inoltre i suoi contributi su Radio Europa sostengono la tolleranza, la libertà di stampa e di opinione in Georgia.
Il secondo incontro, invece, mi ha trasportato in Angola. José Luis Mendonça, nato il 1955 a Golungo Alto, è stato costretto ad arruolarsi durante la guerra civile nel suo Paese, prima di intraprendere la carriera da diplomatico e di scrittore a Parigi. Nel suo romanzo “O Reino das Casuarinas” descrive la delusione delle persone per le promesse, le speranze infrante dopo la raggiunta indipendenza dell’Angola. Tema questo considerato tabu. Ha vinto il premio letterario istituito in occasione delle celebrazioni dei trent’anni d’indipendenza, con il romanzo “Um Voo de Borboleta no mecanismo inerte do tempo”. Mendonça apporta un decisivo contributo alla diffusione della cultura in Angola con la rivista da lui fondata “Cultura Jornal Angolano de Arte y Literatura”.
Altro incontro, durante il quale si sono discussi temi attuali molto caldi, è stato quello con Leila Aboulela, che ha presentato il suo nuovo romanzo “The Kindness of Enemies”, che abbraccia più di cento anni di storia musulmana, trattando concetti caratteristici come Identità, Lealtà, Sufismo e Jihad. Aboulela è nata il 1964 a Cairo, capitale dell’Egitto, ed è cresciuta a Khartum nel Sudan. Ha studiato anche in Inghilterra presso la “London School of Economics” ed ha lavorato come docente in Scozia. Religione, identità e differenze culturali impregnano le sue opere letterarie.
Interessante è il suo romanzo “Minaret”, che narra l’esilio di una ragazza dell’élite sudanese a Londra, dove ritrova la sua fede religiosa, che aveva abiurato in patria. Per quanto ho percepito durante l’intero festival, negli incontri con le autrici musulmane, a differenza delle femministe occidentali, l’indipendenza delle donne passa anche attraverso la crescita spirituale e non vi è contrasto tra famiglia e carriera, anzi combaciano. Leila Aboulela anche se ha avuto successo nella sua professione mantiene le sue tradizioni, che si esternavano già con l’utilizzo del velo.
Mi sono divertito molto con E. C. Osondu, sempre sorridente che ha presentato il suo libro di racconti brevi “Voice of America”, nel quale descrive la vita dei ragazzi nigeriani negli Stati Uniti, dove rimangono disillusi. Osondu stesso risiede, attualmente, negli Stati Uniti.
Il genere lettarario dei racconti brevi, da lui prediletto, è molto diffuso in USA. Nel 2006 la sua storia “A Letter from Home” è stata nominata come una delle migliori dieci mai pubblicate in Internet. Inoltre nel 2009, grazie al testo “Waiting”, ha vinto il prestigioso “Booker Prize” africano.
In questo Festival, pieno di donne dal carattere molto forte non poteva mancare Laksmi Pamuntjak, scrittrice e giornalista, indonesiana, nata il 1971, che ha presentato il suo primo romanzo intitolato “The Question of Red”, nel quale narra le vicende di una coppia durante il colpo di stato del Generale Suharto nel 1965. I due innamorati Amba e Bishma vengono separati definitivamente durante i subbugli di una manifestazione contro la presa al potere del generale. Nel 1998 la donna si reca nel Campo di prigionia sull’isola Buru alle tracce del suo ex ragazzo. Attraverso la storia di due persone, Pamuntjak ha ripercorso le tappe storiche più importanti del 20° secolo dell’Indonesia, dal periodo coloniale all’indipendenza, dalla dittatura alla democrazia.
Elif Shafak, nata da genitori turchi a Strasburgo nel 1971, è cresciuta, in seguito alla separazione, con la madre, che ha lavorato come diplomatica, in Spagna e Giordania. Elif, col tempo, è divenuta la scrittrice più venduta in Turchia. I suoi libri sono stati tradotti in più di trenta lingue. I suoi temi principali sono il femminismo, l’individualismo e la cultura ottomana. Essendo una personalità libera ed indipendente, la sua scrittura risulta un “pugno nell’occhio” per una società maschilista e dittatoriale come quella turca.
All’incontro del Festival, dove ha presentato il suo libro “The architect’s apprentice”, ha fatto l’analisi della situazione delle donne nella sua patria, che soffrono la società maschilista in cui sono inserite, che danneggia anche molti uomini. Vede negativamente il futuro della Turchia, che negli ultimi anni, dal suo punto di vista, è regredita tantissimo. In pericolo sono le culture e le sessualità minoritarie; in una nazione dittatoriale, i tabù del sesso sono addirittura più forti dei tabù politici.
Shafak, ha detto di non voler idealizzare le donne, ma crede che esse siano, in generale, più aperte degli uomini. Ha notato che leggono molto di più e sono più propense alla conversazione e al dialogo.
La serata di sabato si è conclusa con l’evento “Poetry night III”, a cui ha partecipato, tra gli altri, Luke Fischer, classe 1978, di Sydney di origini tedesche. Ha vissuto per anni in Germania grazie a delle borse di studio universitarie. Nelle sue poesie si occupa del rapporto dell’uomo con la natura e con il mondo. Il suo libro “Paths of Flight” è stato indicato come uno dei migliori del 2014 dalla rivista “Weekend Australian Magazine”. Ha ricevuto già molti riconoscimenti tra cui il “Overland Judith Wright Poetry Prize” nel 2012.
Domenica 13 settembre ero al festival già alle ore 14.00, per seguire il “Graphic-Novel-Projekt”. Dei partecipanti ho fotografato Elnathan John. Nato il 1966 in Nigeria, ha abbandonato definitivamente la carriera d’avvocato nel 2012 per dedicarsi esclusivamente alla scrittura, attraverso la quale denuncia principalmente la cruda realtà di bande di ragazzini di strada, che lottano per la sopravvivenza. Altro tema a lui caro è la sessualità nella sua Patria. Nel 2015 ha ricevuto il “Civitella Ranieri Fellowship” nella residenza in Umbria in Italia.
Alle ore 18.00, ho assistito all’incontro “Inclúyanme afuera” con María Sonia Cristoff. Figlia di emigranti bulgari, Maria è nata il 1965 in Patagonia in Argentina. Lavora come giornalista e insegnante universitaria.
“Inclúyanme afuera” è anche il titolo del suo ultimo romanzo, nel quale racconta di una interprete simultanea, che lascia tutto alle spalle, per iniziare una nuova vita anonima come guardiana di un museo di provincia. Molti critici hanno dichiarato che questo libro somiglia molto a quelli del celebre scrittore austriaco Thomas Bernhard.
Alle ore 19.30 c’è stato l’attesissimo incontro della sezione “Sulla situazione del femminismo”, con Laurie Penny, Mona Eltahawy e Josephine Decker. Anche in questo caso, la sala era strapiena. È stato un dibattito molto acceso. A seconda delle provenienze regionali si avevano punti di vista molto differenti: Mona Eltahawy, nata e cresciuta in Egitto, una nazione dove le donne hanno pochissimi diritti, aveva una posizione molto più dura rispetto a Josephine Decker, nata e cresciuta a New York, dove la situazione delle donne è molto più florida ed avanzata.
Eltahawy si è espressa aggressivamente, senza peli sulla lingua, ed ha dichiarato che le donne egiziane non vogliono chiedere aiuto a quelle occidentali, perché loro stesse si stanno battendo con tenacia per i loro diritti e vogliono farcela da sole. Soprattutto a livello sessuale, ha condannato il controllo che gli uomini e la chiesa vogliono avere su di esse. Ha rivendicato il diritto delle donne al piacere sessuale ed ha detto in tono di sfida “State fuori dalla mia vagina, se non sono io a volervici dentro” (“Stay out of my vagina, unless I want you in it”). Tutte le religioni, indistintamente, cercano di controllare la vagina.
Josephine Decker ha utilizzato un tono più moderato, e ha affermato che a New York vi sono già molte donne indipendenti in ogni campo. Vi è però ancora molta strada da fare.
Decker, nata in Texas il 1981, ha intrapreso la carriera di regista. Ha realizzato molti cortometraggi tra cui un documentario sulla bisessualità, prima di girare il suo primo lungometraggio intitolato “Butter on the Latch”, seguito da “Thou Wast Mild and Lovely”.
Mona Eltahawy, classe 1967, egiziana, ha lavorato come giornalista, prima di pubblicare il suo primo libro nel 2015, intitolato “Headscarves and Hymens”. Si batte per i diritti delle donne nei Paesi islamici.
Laurie Penny ha sollevato un forte dibattito con la pubblicazione del libro “Meat Market” nel 2011, nel quale puntava il dito sulla mercificazione del corpo femminile nel mondo capitalistico, aizzato anche a causa del contributo dei media. Penny è nata il 1986 a Londra e lavora anche come giornalista.
Successivamente è stato presentato il libro “Charlotte” di David Foenkinos, che affronta il difficile tema del nazismo attraverso la ricostruzione della vita di una vittima: l’artista ebrea Charlotte Salomon, uccisa a soli 29 anni. Debbo confessare che non conoscevo David Foenkinos, sono rimasto intrigato, leggendone la biografia. Nato il 1972 a Parigi ha studiato letteratura e Jazz: due mie grandi passioni. Quando scrive ha come modello, tra gli altri, Woody Allen, forse il mio regista preferito. A renderlo famoso in Francia è stato il romanzo “La delicatesse”, che è divenuto un bestseller.
Tra tanti temi impegnati, martedì 15, ne ho scelto uno più leggero con la presentazione del libro “Moshi Moshi” di Banana Yoshimoto, nel quale l’autrice dichiara il suo amore per il quartiere artistico Shimokitazawa della città di Tokyo, che conosciamo attraverso il personaggio fittizio di nome Yotchan, un ventenne in profonda crisi a causa del suicidio del padre con una donna sconosciuta. Ritroverà la gioia di vivere quando si trasferirà con sua madre appunto nel quartiere elettrizzante di Shimokitazawa.
Banana, figlia di Takaaki Yoshimoto uno dei più conosciuti filosofi giapponesi, ha raggiunto la notorietà con la pubblicazione di “Kitchen” nel 1998, che ha avuto 60 ristampe in Giappone e sono stata realizzate due riduzioni cinematografiche.
Banana, che in realtà è lo pseudonimo di Mahoko, è nata il 1964 a Tokyo. Durante la sua carriera ha pubblicato una decina di romanzi e raccolte di racconti, ed ha ricevuto riconoscimenti prestigiosi come il “Yamamoto-Shugoro-Preis” (1989), il Murasaki-shikibu-Preis (1994) e il Capri Award 2011.
Con la presentazione del nuovo libro di Frank Witzel, si è discusso uno degli argomenti più interessanti e misteriosi della giovane Repubblica Federale, riguardanti il caso della RAF, abbreviativo di “Frazione dell’Armata Rossa”, fondata nel 1970 da Ulrike Meinhof, Andreas Baader, Horst Mahler e Gudrun Ensslin. Conosciuta anche come Banda Baader-Meinhof è stato un gruppo terroristico dell’estrema sinistra tedesca. Il titolo del libro, per il momento non ancora tradotto in italiano, è: “Die Erfindung der Roten Armee Fraktion durch einen manisch-depressiven Teenager im Sommer 1969”. L’io narrativo è rappresentato da un ragazzino di 13 anni.
Frank Witzel è nato il 1955 a Wiesbaden ed ha intrapreso sin da giovane la carriera di musicista, illustratore e scrittore. Il successo come scrittore è arrivato con la pubblicazione del romanzo “Bluemoon Baby”, che racconta il fittivo complotto internazionale orchestrato dall’insegnante liceale Hugo Rhäs. Altri suoi libri interessanti sono le pubblicazioni dei suoi dialoghi con Thomas Meinecke e Klaus Walter intitolati “Plattenspieler” e “Die Bundesrepublik Deutschland”, dove si spazia da argomenti più seri come quelli di politica a quelli più frivoli sulla pettinatura e sulla musica. Nel 2012 ha ricevuto il premio “Robert Gernhardt”.
Tutti i ragazzi della mia generazione ricorderanno con piacere il gruppo di giovani squattrinati, che hanno creato una band musicale a Dublino nord, nel film “The Commitments”. Roddy Doyle, l’autore dell’omonimo romanzo, ha presentato al Festival una delle sue ultime fatiche letteraria “The guts”, che è anche il seguito di “The Commitments”. Jimmy Rabbitte, Outspan e Imelda hanno 30 anni in più. Jimmy, leader del gruppo, è ora padre di una felice famiglia di 4 figli. A rovinare il tutto è la notizia di essersi ammalato di cancro.
La carriera letteraria di Roddy Doyle, nato il 1958 a Dublino, è iniziata nel 1993, quando ha deciso di abbandonare definitivamente la professione di insegnante di geografia e inglese. Tra i numerosi riconoscimenti, da citare è il prestigioso “Booker Prize” per il suo romanzo “Paddy Clarke ah ah ah!”
L’ospite più importante del festival è stato il premio Nobel 1986 per la letteratura Wole Soyinka, con il quale si è discusso, in due incontri differenti, di due temi, che riempiono le pagine dei media quotidianamente e che sono tra i primi posti nell’agenda politica dei primi ministri occidentali: il terrore degli estremisti islamici e i rifugiati.
Nel primo dei due incontri al centro del dibattito vi è stato “Boko Haram”, l’organizzazione terroristica jihadista nigeriana, di corrente sunnita salafita, che persegue l’applicazione letterale della Shari’a. Nel secondo incontro si è discusso delle cause che hanno provocato, nel solo 2014, 38 milioni di sfollati. La gente in molti Paesi, tra cui Congo, Siria, Nigeria, Iraq, hanno deciso di voltare le spalle alla propria patria, per colpa di guerre, di attacchi di natura terroristica o per motivi economici. Chi giunge in Europa, lo fa per disperazione, per aver perso tutto ciò che aveva e per la mancanza di un futuro nella propria patria. Basti pensare che, sempre nel 2014, in Ucraina, 646.000 persone si sono ritrovate senza un tetto dall’oggi al domani.
Wole Soyinka, nato il 1934 a Abeokuta in Nigeria, conosce molto bene il terrore e le conseguenze dei regimi antidemocratici. Infatti è stato incarcerato tra il 1967 e il 1969, durante la guerra civile nel suo Paese, per aver redatto un articolo, nel quale appellava alla pace. Ha raccontato il suo periodo in cattività nel libro “L’uomo è morto” e “Poesie dal carcere”.
Dopo aver iniziato la sua carriera letteraria nel 1965 con la stesura del romanzo “Gli interpreti”, è divenuto velocemente uno dei più significativi rappresentanti della letteratura africana sub-sahariana. Si è distinto come poeta, saggista e drammaturgo, fino ad essere insignito con il Premio Nobel nel 1986. La gavetta da drammaturgo, l’ha fatta al Royal Court Theatre di Londra e nel 1964 ha messo su il suo primo gruppo teatrale “Le maschere 1960”. Oltre a numerosi scritti e a numerosi riconoscimenti, ha insegnato anche in molte università. Sulla sua testa pendeva la condanna a morte del dittatore Sani Abacha, deceduto nel 1998. Attualmente vive negli Stati Uniti. L’opera letteraria di Soyinka s’incentra nello sviluppo dell’Africa moderna e promuove la democrazia, il pluralismo, la difesa delle tradizioni regionali, dell’uguaglianza e dei diritti umani nel suo continente.
Per capire al meglio come viene gestita la situazione dei rifugiati in Germania è utile la lettura del libro “Gehen, ging, gegangen” di Jenny Erpenbeck, che l’ha presentato personalmente in una sala strapiena al Festival.
In questo romanzo si riflettono le esperienze che l’autrice ha avuto con l’incontro dei rifugiati a Oranienplatz, che l’anno scorso hanno avuto una grande risonanza nei media locali, nazionali ed internazionali.
L’io narrante è Richard, professore emerito, che dopo l’incontro casuale con un gruppo di esiliati africani, capisce al meglio la triste situazione che si è creata e le difficoltà e le atrocità a cui sono sottoposti le persone che sono costrette ad abbandonare il proprio Paese.
Erpenbeck ha voluto chiarire una delle polemiche più accese degli ultimi tempi. Gli immigrati che possiedono il cellulare, non sono persone che non se la passano male, non sono benestanti o trascorrono delle vacanze a discapito dei contributori europei. Il cellulare è l’unico bene che gli rimane, l’unico legame sociale. È solo attraverso di esso che possono mettersi in comunicazione con i parenti o avere e curare rapporti di fondamentale importanza. Inoltre è l’unico passatempo che hanno, perché, a differenza degli europei, non posseggono altri svaghi come la tv, libri e non hanno diritto ad andare al cinema o a mangiarsi una pizza con gli amici.
Alla domanda di uno spettatore su che cosa ne è stato degli immigrati che ha conosciuto ad Oranienplatz, Erpenbeck ha risposto che la maggioranza di loro non hanno ancora il permesso di lavoro e che dormono in alloggi di emergenza messi a disposizione dalla Chiesa, che è una delle poche istituzioni che sta realmente facendo qualcosa per loro.
Jenny Erpenbeck, nata il 1967 a Berlino est, è figlia e nipote d’arte. Dopo aver studiato Recitazione e Regia teatrale, ha iniziato a inscenare per differenti teatri in Germania ed in Austria. Ha scritto anche numerosi libri di successo ed è stata tradotta in italiano. Alcuni titoli: “Storia della bambina che volle fermare il tempo”, “Di passaggio”, “E non è subito sera”, “Gehen, ging, gegangen” pubblicato a settembre 2015, non è stato ancora tradotto. Ha ricevuto prestigiosi riconoscimenti quali il Premio Ingeborg Bachmann e il Premio Hans Fallada.
A proposito di rifugiati, giovedì 17 settembre, vi è stato un incontro dal titolo inequivocabile “Siamo tutti in esilio” di Norman Manea, uno dei maggiori scrittori rumeni.
Norman Manea, classe 1936, ha vissuto da bambino, in prima persona, le deportazioni dei nazisti. La sua famiglia, della regione di Suceava, è sopravvissuta alla tragedia. Ma la sua vita è continuata ad essere quella di un nomade, essendosi poi trasferito in Germania ovest, durante la guerra fredda:
“La storia è triste e incoerente”, ha detto, “a 50 anni suonati, quando ero a Berlino. Non sapevo cosa ne sarebbe stato del mio futuro. Se fossi voluto rimanere nei Paesi Occidentali o rimpatriare. Non sono, mai voluto, però, emigrare negli Stati Uniti. Mi sono sempre sentito europeo”.
Ricorda con affetto Berlino e il periodo trascorso in città. Durante la sua carriera di scrittore ha pubblicato svariati racconti, romanzi e saggi, che ruotano attorno al concetto d’identità, di esilio e di linguaggio. Come ha ammesso, la comunità della sua città padroneggiava il tedesco e, nonostante le brutalità dei nazisti, i suoi genitori hanno voluto che lui stesso da bambino, apprendesse questa lingua invece di abiurarla.
Norman Manea ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali quali il “Nelly-Sachs-Preis”, “MacArthur Fellows Award” e “Internationalen Nonino Prize für Literatur”. È membro della Akademie der Künste e dell’Ordre de Lettre.
Successivamente, in un’altra sala strapiena ho seguito l’incontro, intitolato “Politics for sale” di Gayatri Chakravorty Spivak, fondatrice del dipartimento di letterature comparate della Columbia University. Il pubblico era formato prevalentemente da giovani ragazze, le quali hanno assistito ad una conferenza sul femminismo, la globalizzazione e il colonialismo.
Nel romanzo “The Love Affairs of Nathaniel P” della scrittrice statunitense Adelle Waldman, presentato il 17 settembre, si ha un buon dipinto della scena giornalistica di Brooklyn vissuta dal protagonista Nathaniel Pivet, la cui vita viene messa sotto sopra quando si innamora di Hannah. Il romanzo ha come tematica il sessismo e Nathaniel Pivet rappresenta, come scritto in una recensione del settimanale Spiegel, “ciò che le donne definiscono comunemente uno stronzo” (Nathaniel Piven ist das, was Frauen gemeinhin als Arschloch bezeichnen). Waldman oltre ad essere un’apprezzata scrittrice è una giornalista affermata: i suoi pezzi sono pubblicati da media prestigiosi quali il “Wall Street Journal” o il “The New York Times Review”.
L’ultimo giorno del Festival, ho seguito tre incontri.
Il primo è stato quello con David van Reybrouck, durante il quale si è discusso sul futuro della democrazia. Le sue affermazioni mi sono sembrate molto interessanti. Pone in dubbio la validità assoluta delle nostre democrazie elettive. Secondo lui si dovrebbe ritornare alle elezione a sorteggio. Questa forma di democrazia, in cui lo Stato è retto da cittadini estratti a sorte, si chiama demarchia e vigeva nell’antica Atene. La rivoluzione in Francia ha creato la forma di democrazia moderna, basata sul diritto al voto, che van Reybrouck dubita essere la migliore, perché i politici sono costretti a pensare più a vincere le elezioni che agli interessi della collettività.
David Van Reybrouck, nato il 1971 a Bruges, ha attratto l’attenzione su di se quando è stato pubblicato il suo libro “Plädoyer für den Populismus” nel 2008. A farlo conoscere internazionalmente è stato il suo secondo romanzo “Congo: The Epic History of a People”, nel quale racconta la storia di questa nazione dalla schiavitù alla colonizzazione, dall’indipendenza alla dittatura, delle guerre civili alla globalizzazione.
Altro incontro attesissimo è stato quello con la scrittrice ebrea Zeruya Shalev, nata il 1959 in Israele, che nel suo ultimo romanzo autobiografico “Schmerz”, racconta il dolore fisico che si prova dopo un attentato terroristico. Lei stessa è rimasta gravemente ferita in un attentato suicida nel 2004. Vorrei segnalare il suo romanzo, che s’inserisce bene nel contesto femminista del festival: “Love Life” – La protagonista si lascia trasportare in avventure erotiche di un amore proibito. Shalev, che attualmente, vive e lavora a Gerusalemme, ha ricevuto numerosi riconoscimenti come il Prix Femina étranger.
L’ultimo incontro del festival è stato quello, fuori programma, deciso il giorno prima, con l’attrice Margarita Broich che ha presentato il suo libro fresco di stampa “Alles Theater: Schauspielerporträts”
Margarita Broich, nata il 1960 in Germania, ha iniziato la sua carriera teatrale, fotografando gli attori dietro le quinte e durante gli spettacoli. All’inizio, intorno al 1981, ha ammesso, di fronte al pubblico, che non aveva nessuna conoscenza, nessuna idea del teatro. Poi osservando gli altri mentre recitavano, ha pensato che loro si divertivano, mentre lei trascorreva le giornate nella camera oscura a sviluppare le foto. Broich, col tempo è divenuta pure lei un’attrice molto apprezzata.
Chiudo questo mio resoconto sul Festival di Letteratura 2015, citando brevemente l’incontro con i due autori della sezione “Nuovi voci tedesche”, a cui hanno partecipato quest’anno Jakob Nolte e la giornalista Mercedes Lauenstein, classe 1988, che scrive, tra l’altro, per il rinomato quotidiano “Süddeutsche Zeitung”. Nel 2015 è stato pubblicato il suo primo romanzo “Nachts”.
Nolte, anche lui classe 1988, originario di Hannover, ha ricevuto, nel 2013, per la sua seconda opera “Das Tierreich” il Brüder-Grimm-Preis.
Il nuovo appuntamento con il Festival di Letteratura internazionale è, come sempre, a settembre dell’anno prossimo.
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