di Emilio Esbardo
Il 4 maggio 2015, in occasione della IV Primavera della letteratura italiana a Berlino, lo scrittore, giornalista, autore satirico Michele Serra ha presentato la traduzione tedesca de “Gli sdraiati”. Prima dell’evento sono stato accolto dallo scrittore per un’intervista nell’hotel dove risiedeva durante la sua permanenza nella capitale tedesca.
L’intervista sì è poi trasformata in una piacevolissima conversazione, durante la quale Michele Serra si è espresso in modo ampio e esaustivo, in temi delicati e difficilissimi da affrontare: ad esempio la politica e la crisi del giornalismo.
La gente ha perso fiducia nella politica, quali sono le cause, secondo lei, e come si potrebbe rimediare?
È una domanda complicatissima. A rispondere ci vorrebbero due ore e si direbbe poco o male. Vi è un’enorme crisi della rappresentanza. Un sacco di persone – parlo dell’Italia in questo momento – non conosco abbastanza bene gli altri Paesi, non si sentono rappresentate e questa è una grande novità storica. Ad esempio in una nazione come la nostra, quando c’erano i partiti di massa, ci si sentiva molto rappresentati, dalle ideologie, dai partiti stessi. Adesso no. Dal mio punto di vista, non solo i non votanti ma molti di quelli che oggi votano, si sentono rappresentati in modo molto più parziale. Prima il voto era quasi identitario. Eri comunista, votavi comunista; eri democristiano votavi democristiano; eri monarchico votavi monarchico; eri fascista votavi MSI. Non ci si pensava tanto sopra: era un’appartenenza. Tutto questo è in frantumi: è un bello sconquasso. Ognuno prova a rimediare a modo suo. C’è chi crede che attraverso il web, per esempio, si crei per miracolo una nuova classe dirigente. Io, purtroppo, non sono affatto d’accordo. Penso che ci sia un problema di formazione delle classi dirigenti. Viviamo una fase molto, molto caotica, in cui ognuno fa per suo conto. È una fase di dispersione, di sbriciolamento, con poi anche, però, secondo me, delle grandi novità positive, rappresentate da sistemi di autorganizzazione virtuosi, di cui i media non parlano. Ad esempio, in Italia, tre o quattro anni fa, non ricordo precisamente, il referendum per l’acqua pubblica, è stato un miracolo di autoorganizzazione. Né i giornali, né i partiti hanno capito niente di ciò che stava succedendo. Erano sicuri che non si sarebbe raggiunto il quorum. Invece è stato raggiunto: è come se tutto fosse fluido, però, le cose fluide si raggrumano in forme nuove. Beato chi ha 20 anni, perché vedrà delle cose straordinarie forse anche terribili, o terribili e straordinarie.
Come è risaputo il giornalismo vive una fase negativa. I lettori hanno perso fiducia nei giornalisti. Perché secondo lei?
Non lo so precisamente. Il giornalismo è un mondo in mutamento, rapidissimo, vorticoso. In Italia, al di sotto della fascia dei 35-40 anni, nessuno legge più i giornali. Non è neanche questione di sfiducia nei contenuti, è una questione di sfiducia, evidentemente, nel medium. Il giornale di carta è visto dai giovani, come uno della mia generazione potrebbe vedere il grammofono con la punta di grafite. È considerato un oggetto antico. Il problema del giornalismo è molto simile a quello della politica. Tutto è molto fluido e frantumato. Non si può, però, vivere a lungo in mezzo ai frantumi e ai cocci e a un mondo sminuzzato. Molti semplificano indicando il web come soluzione. Il web è una cosa meravigliosa ma contiene dieci miliardi d’informazioni. Prendiamo per buono il fatto che le 40 informazioni di un quotidiano non vengono considerate più bene, bensì tutte sbagliate. Non le puoi sostituire con 10 miliardi d’informazioni. C’è bisogno di lettori o comunque di agenzie. In fondo quando si acquista un giornale, si fa un atto di fiducia nei confronti di quel gruppo di persone che hanno realizzato una selezione di notizie per te. Questo è comprare un giornale. Anche nel web, spero, che, prima o poi, si arrivi ad una forma di selezione. Bisogna iniziare a padroneggiare la materia. Distinguere il vero dal falso nel web non è facile in questo momento. Era difficile già anche con l’informazione ufficiale. Bisogna sfatare il mito di chi afferma che le falsificazioni vengono alla luce, che il web si autocorregge. Potrebbe essere, forse, facile smascherare chi la spara troppo grossa. Diffido dell’idea di questo mondo virtuale, di questa gigantesca assemblea mondiale, in cui, alla fine, la verità emerge sempre e la bugia perde sempre – Lei ha scritto i testi degli spettacoli di Grillo, che la pensa in modo opposto – Io non frequento più Grillo dal 1991, vorrà pur dire qualcosa. Sono una ventina d’anni che non ci vediamo più. Mi appare addirittura il punto debole del suo movimento: questa specie di fede messianica nel web, che ha anche qualcosa di un po’ ridicolo; nel senso che è ingenua. Siccome la realtà è complessa, bisogna costruire criteri complessi, per tentare di sopravvivere, di capirla. I sistemi ingenui ti vedono destinato a perdere, a essere soccombente. La cultura gioca un ruolo fondamentale. Tanto più il mondo dove navighi è vasto, e dunque pieno di pericoli, di falsi percorsi, tanto più devi diventare bravo. Il giornalismo del futuro, lo vedo come un giornalismo, oso dire, a pagamento, perché i servizi si pagano. Il mito della gratuità è ingenuo anche quello. La “merda” è gratis. Non vorrei sembrare cinico. Un mio amico di destra mi prende in giro dicendo che il web è il comunismo realizzato: merda gratis per tutti. Mi rendo conto che è un paradosso, una cosa molto drastica. Però c’è un fondo di verità. Capisco che vi sia questa meravigliosa disponibilità d’informazioni. È giusto che un sacco di cose siano finalmente accessibili a tutti: è bellissimo. Altresì è vero che se si vuole un servizio molto efficace, qualcosa si deve pure pagarla. Dal mio punto di vista, il servizio efficace nel web è, oggi, un aiuto alla navigazione, alla selezione. È un lavoro di elaborazione: sono dati brutti, sono come ingredienti; poi ci vuole un cuoco che li cucini, ci vuole qualcuno che prenda questo materiale – può essere anche il miglior materiale del mondo – e lo impasti e lo trasformi. I giornalisti del futuro lavoreranno fondamentalmente online. Li vedo come dei domatori di questo enorme casino, che riescono a dargli un poco di forma. Essi hanno diritto, però, a guadagnare. Il rischio è che fare il giornalista non sia più un lavoro. Purtroppo bisogna mangiare, vestirsi, pagare l’affitto, le bollette. Io, come vecchio giornalista, mi sento realmente in colpa nei confronti dei ragazzi, che mi scrivono, dicendomi che ricevono 15 euro ad articolo. Non so cosa rispondergli. Io appartengo ad una generazione garantita. I giornalisti della mia generazione, non solo le grandi firme, hanno esercitato una professione inquadrata con la mutua, con la pensione, con tutti i diritti. Per noi era un signor lavoro. Adesso è una catastrofe. Al momento, il giornalismo non è più una professione.
Nel suo libro “Gli sdraiati”, autentico j’accuse generazionale lei ha saputo scaldare gli animi come di rado accade a seguito della pubblicazione di un libro, in Italia. Cosa pensa del dibattito che ha suscitato?
È un’accusa generazionale più contro i padri che contro i figli. Accusa, però, è forse una parola troppo drastica. Se riconosco un pregio a questo racconto – non è un saggio – è che non esprime giudizi; racconta appunto. È la storia di un padre che parla sempre di un figlio che non parla mai; quindi di un padre invadente, ingombrante, “rompicoglioni”. È lui, il figlio, che sceglie di non rispondergli. Né sul padre, né sul figlio, c’è un giudizio definitivo, dunque non si tratta un libro accusatorio. È un libro che racconta la difficoltà di un rapporto difficilissimo, che, nonostante tutto, è molto appassionante, molto profondo. Riguardo al dibattito, un libro appartiene per fortuna ai lettori. I lettori lo salvano in qualche modo, perché un lettore che lo legge, lo fa suo. Il dibattito – non so se funziona allo stesso modo in Germania – in Italia c’è un vizio di fondo: si parla molto del contesto e poco del testo, ovvero si fa molta sociologia, si fa molta politica … i padri sessantottini … e i padri di sinistra … e la mancanza di autorità, etc. etc. Dopodiché, io ho pubblicato un libretto piccolissimo di 105 pagine, con molti spazi bianchi. Il dibattito mi ha lasciato abbastanza, tutto sommato, estraneo. Il mio contributo ad esso è di avere scritto il libro.
Lei si è occupato per molti anni anche di satira: le sembra che oggi in Italia ci sia una libertà di satira o che questa sia solo apparente?
Sì, c’è libertà di satira. Sicuramente più in Italia che in Arabia Saudita, per fare un esempio ovvio. O più in Italia che in Cina. Non ho mai creduto, però, che esista un’illimitata libertà di satira. Se usi un linguaggio di frontiera, devi aspettarti di entrare in conflitto. Non si può pensare di fare satira gratis (non in senso economico), senza provocare una reazione. Non si può essere aggressivi, sperando che nessuno dei tuoi bersagli sia mai aggressivo. Dunque le querele, i casini giudiziari fanno parte del gioco. Ho diretto, per 6 anni, un giornale di satira che si chiamava “Cuore”, che ha avuto molto successo in Italia. Non ho mai fatto satira, offendendomi se qualcuno si offendeva o querelava. L’idea che tu puoi fare quello che vuoi, perché sei il satirico e quindi hai una specie di aureola di purezza e nessuno deve incazzarsi, non è realistica. Non si agisce in un terreno astratto, si agisce nel corpo della società. Anzi aggiungo, che un giornale di satira che non becca mai una querela, che non fa mai arrabbiare nessuno, non ha fatto molto bene il suo lavoro.
In passato lei ha scritto per Grillo, cosa pensa dell’attuale posizione del leader del movimento 5 stelle?
È stata una bellissima esperienza. Sono onorato di aver lavorato con lui, perché, fine anni ’80, era il numero uno assoluto. Io ero un ragazzo di neanche trent’anni, quindi lusingatissimo e felicissimo di essere stato ingaggiato da Grillo. Abbiamo collaborato assieme tre-quattro anni. Abbiamo fatto due festival di San Remo ed uno spettacolo teatrale che si chiamava “Buone notizie”, che era contro il mondo dell’informazione. Mai avrei pensato che – tutta la stima nei confronti del comico, dell’uomo di palcoscenico. Una star vera, secondo me – lo stesso linguaggio da uomo di spettacolo, avrebbe avuto successo in politica, perché sono linguaggi profondamente diversi. Nel linguaggio satirico, c’è drasticità, c’è l’uso del paradosso, c’è anche una libertà di menzogna straordinaria. In politica, secondo me no. In politica, secondo me, non si può trasformare, liquidare un argomento, come se ci si stesse giocando a pallone. Invece mi sbagliavo perché ha avuto molto successo. Quello che mi sembrava geniale sul palcoscenico come idea satirica, mi sembra penoso come semplificazione politica. Scrivere un pezzo di satira e un comizio politico sono due cose diversissime. Ci sono anche punti di contatto ma sono due linguaggi distinti. Mi sembra che il Grillo politico parli ancora come il Grillo satirico. “Vaffanculo” detto da un satirico m’interessa, detto da un politico meno.
Nella rubrica “L’Amaca” lei descrive vizi e costumi della politica e della società italiana. A grandi linee quali sono i più evidenti, in positivo e in negativo?
In senso negativo, la superficialità. E volendo dargli un volto politico in questo momento, per esempio, l’idea diffusissima che ci sia la casta, il palazzo colpevole e il popolo buono e innocente. Non è proprio così, ogni Paese ha la classe dirigente che si merita. Certo se vivi sotto un tiranno, sotto una dittatura, puoi anche prendere per buono questo schema che c’è un potere cattivo. Ma in democrazia elettorale, bene o male, l’assomiglianza tra eletti ed elettori è fortissima. Tale concetto non è molto diffuso in Italia. I lettori si arrabbiano spesso. Se si afferma che i parlamentari sono lo specchio di quello che è il Paese, si offendono. Il salto di qualità da fare sarebbe quello di smettere di pensare che la colpa sia sempre degli altri. Questo è un difetto terribile degli italiani. C’è una battuta formidabile di Altan in una sua vignetta, dove è raffigurato un tipo che dice: “ogni tanto mi chiedo chi è il mandante di tutte le cazzate che faccio”. Non riesce a pensare di essere lui ovviamente. Il nostro è un Paese nel quale c’è una grande produzione di alibi e gli alibi appartengono all’infanzia. Si va dallo psicanalista per imparare a prendere le distanze da essi e per vedere in faccia se stessi. Da questo punto di vista, siamo un Paese infantile, incapace di prendersi carico delle proprie responsabilità. Il pregio, se lo chiedi ad un tedesco: il cibo, il sole … adesso dico una scemenza. Però effettivamente il pregio, di cui noi ci rendiamo poco conto, è la fortuna di vivere largamente nel Paese più bello del mondo. Da tutti i punti di vista: artistico, paesaggistico, etc. è un Paese incredibile. Bisognerebbe imparare a meritarselo un Paese così.
Lei è stato membro del Pci, a tanti anni dalla caduta del Muro, pensa che un’idea di trasformazione del mondo sia stata archiviata troppo velocemente?
No. Penso che si sia spappolato. Parlando del socialismo reale, il suo stesso spappolamento è la prova a carico più spietata. Una roba che va giù come budino, come semolino, vuol dire che era inutilizzabile. Io credo che più ancora degli aspetti liberticidi, quindi la censura, l’impossibilità di movimento, il comunismo aveva perso la sua guerra con il capitalismo, perché non era capace di produrre consumi e merci. È una cosa triste da dire perché io, nella mia testa, ho fondamentalmente una mentalità anticonsumista. Però quando i miei amici mi dicevano: “sono andato di là con quattro buste di calze di seta ed erano disposti a tutto pur di…”, mi piangeva il cuore. Pensavo: “fate le calze di seta anche lì”. Era lugubre quella roba lì. Se fosse stata soltanto liberticida, ma non così lugubre avrebbe retto di più. È stata sottovalutata molto l’esigenza delle persone, degli esseri umani a essere felici anche di piccole cose, non solo di grandi ideali. Se considerassimo il comunismo dal punto di vista occidentale, c’è tutta una storia di libertà sindacale, di lotta per i diritti, di lotta per il salario: la storia della sinistra è anche gloriosa. Conosco ancora persone, molto in là con gli anni, che hanno lavorato come mondine nell’immediato dopoguerra e che parlano di quell’esperienza dell’organizzarsi in sindacato e della lotta contro i caporali. Gli si illuminano gli occhi perché, in quel caso, era proprio una lotta per la dignità. È un discorso molto complicato. Ho conosciuto persone meravigliose all’interno del Partito Comunista. Detto ciò, il disastro storico di quel sistema che era il sistema alternativo al capitalismo, verrà pagato per un bel po’ di anni ancora. Non so quanti, spero prima di un secolo si possa ricominciare a parlare di socialismo in un modo un pochino più allegro e un pochino più funzionale.
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