Il 1 aprile si è esibito presso il locale “b-flat” di fronte ad una platea entusiasta Peppe Voltarelli, importante cantante e attore di origini calabresi. Voltarelli sia nelle sue canzoni che nei suoi film mette spesso in rilievo la figura dell’emigrante. Basti citare la canzone “Onda Calabra” e la pellicola “La vera leggenda di Toni Vilar”, che era stata presentata anche qui a Berlino il 24 maggio dell’anno scorso.
È un film realizzato da Giuseppe Gagliardi con un budget indipendente, prodotta da Andrea Kerkoc, e presentato per la prima volta al Festival del Cinema di Roma nel 2006, prima di essere proiettato in altrettanti festival internazionali importanti e in numerose città sparse per il mondo. Il film racconta la storia di Tony Vilar, emigrato calabrese in Argentina a 13 anni e divenuto l’idolo delle ragazzine sudamericane negli anni sessanta con brani celeberrimi come “Quando calienta el sol”. Sulla cresta dell’onda, ha sposato l’attrice del momento, Mabel Landì, prima di scomparire dalla scena, a causa di una depressione dovuta alla perdita dei capelli. Tony Vilar è l’incarnazione dell’immigrato povero calabrese che partito dal nulla, riesce ad avere fortuna all’estero e che con orgoglio spedisce cartoline ai propri parenti per dire: “c’è l’ho fatta, eccomi! Ho avuto successo, sono famoso”.
Il protagonista della pellicola, Peppe Voltarelli, va alla ricerca di Tony Vilar e del mistero che circonda la sua vita: scopre che è ancora in vita, vive nel Bronx e vende auto usate. Questo porta Peppe a visitare l’Argentina e New York, a vivere situazioni assurde e a conoscere la realtà degli emigrati calabresi e italiani in questi due luoghi, come ci racconta la voce narrante del film: “a Buenos Aires mi trovai catapultato in una cena di emigrati in perfetto stile calabrese: polpette di sugo rosso, cannelloni di carne e spinaci, peperoncino, nostalgie, partenze, arrivi, Calabria, Italia, tarantella”.
L’idea del film è nata da un viaggio a New York nel 2001 di Peppe Voltarelli, che ne ha discusso poi con Giuseppe Gagliardi. I protagonisti del film sono emigrati reali, che hanno prestato i loro volti; una varietà di personaggi dai nomi improbabili e dalle mille storie da raccontare: Antonio Aiello alias Tony Pizza, inventore della “pizza fritta alla padella”, Frank Bastone, Billy Bud, Joey Ricciolo, Sal il barbiere famoso per aver fatto la barba a Robert De Niro. Nell’incontrare personalmente Peppe Voltarelli mi sono fatto raccontare la storia della sua vita e quella delle comunità italiane all’estero da lui conosciute.
Peppe ci puoi raccontare qualcosa di te e della tua vita?
Sono nato a Cosenza il 26 dicembre del 1969. Mia madre è di Cosenza, mio padre di Crosia. Si sono conosciuti a Crosia, perché mia madre lavorava lì, nelle scuole elementari. Fino a 18 anni sono cresciuto a Mirto. Ho trascorso l’infanzia in un piccolo paese della costa ionica calabrese. Ho iniziato a suonare già alle medie. Eravamo un gruppo di bambini e componevamo canzoni nostre, originali. È stato il professore di musica che ci ha formato non solo musicalmente ma anche umanamente. Il nostro gruppo si chiamava “Red Devils”. Avevamo in scaletta pezzi dei Beatles, dei Pooh, di Santana, qualche vecchia hit come “Calabrisella mia”, “Romagna mia”, “Obladì Obladà”. I nostri pezzi erano canzoni d’amore che seguivano il filone degli anni settanta dei Pooh e s’intitolavano “Tutto Bimba”, “Eravamo due ragazzi sotto il sole” e roba del genere. Poi mi sono iscritto all’Istituto Tecnico per Geometri a Rossano e a 15 anni ho formato il mio primo gruppo rock. Facevamo brani sullo stile dei Doors e dei Pink Floyd, avevamo i capelli lunghi, eravamo vestiti di nero e cantavamo brani con titoli come “Bighellonare”. A 18 anni mi sono trasferito a Bologna, dove, nel 1990-91, ho fondato la band “Il Parto delle Nuvole Pesanti”. Abbiamo inciso il primo disco ed è iniziata la mia carriera professionale che si è consolidata nel 1995. A Bologna ho iniziato a cantare in calabrese, mescolandolo con l’italiano: è stato forse il primo tentativo di una band di esprimersi in dialetto su una base rock o comunque non su una base che non fosse dichiaratamente folkloristica, etnica. Ciò ci ha fatto diventare un piccolo fenomeno, ci ha fatto amare dai ragazzi, che vedevano il calabrese restituito a dignità di lingua universale. Il dialetto che diventa punk ancora oggi rappresenta per un po’ di gente un tentativo di restituire dignità al dialetto. Bologna ha favorito la nascita del nostro gruppo, soprattutto nell’ambiente degli studenti fuori sede, tra gente meridionale e stranieri provenienti dalla Spagna, dalla Germania, dalla Francia. Era un ambiente molto libero, molto aperto, le persone si appassionavano alle nostre canzoni in calabrese e ci ha fatto capire come il nostro dialetto fosse amato.
Che cosa ti lega di più alla Calabria e quali sono i sapori che ti mancano di più della tua regione quando sei in giro per il mondo?
La Calabria è soprattutto la mia terra. Mi lega il mare, mi legano alcuni scorci della Sila e i suoi laghi, alcuni frammenti di spiagge della locride. Alcuni scorci di centri storici, questi bar piccolissimi dei paesi dove non si entra facilmente. Il sapore di un piatto di patate, delle melanzane ripiene, la sardella, sono cose uniche, fanno parte di un ciclo vitale che non verrà mai messo in discussione almeno dentro di noi, dentro la nostra anima. Il sapore del non finito calabrese, delle “fraviche” ancora in costruzione dopo 30 anni è un sapore unico, che in Germania la gente non può neanche immaginare, se non recandosi sul posto. Mi piacciono i luoghi vuoti come le spiagge deserte. C’è uno spezzone da Mirto a Calopezzati, che è completamente selvaggio, neanche una casa, quasi fosse un parco naturale. Il sapore di quando terminava l’estate e iniziavano le prime piogge e si sentiva l’odore dell’erba bagnata.
Quali sono i momenti principali e le persone importanti che hanno segnato la tua vita artistica e umana?
La prima sera che sono arrivato a Bologna nel 1988 e mi sono sistemato in un appartamento in affitto, è iniziata una vita diversa per me. Non avevo più la famiglia vicino, non avevo più l’ambiente del paese, quindi ero io lì contro tutti. Fondamentali sono stati gli incontri con numerosi artisti che mi hanno fatto capire che avrei voluto intraprendere la carriera musicale. Agli inizi degli anni ’90 è giunto il primo disco del “Parto delle Nuvole Pesanti” e le prime recensioni favorevoli. Un disco fatto da undici matti. Un periodo spensierato. Poi c’è stato l’incontro con il regista teatrale Giancarlo Cauteruccio della Kripton. Dal punto di vista musicale un incontro importante è stato quello con Teresa De Sio, che mi ha stimolato tanto e dato consigli utili. Una cosa molto forte è stata quando ho conosciuto Toni Vilar, proprio lui con la sua esperienza di vita. Decisivo è stato l’incontro con Giuseppe Gagliardi. Con lui si è instaurato un rapporto di sintonia perfetto, che ci ha portato a girare il film Doichlanda: questa storia surreale e bizzarra fatta di tournée nei ristoranti italiani in Germania. Quando ci hanno telefonato per comunicarci che Doichlanda aveva vinto al Festival di Torino, per noi è stato un momento pazzesco, che nessuno di noi si aspettava con un film girato in dieci giorni e da due “entità calabre”.
“La vera leggenda di Toni Vilar” mi ricorda in alcuni aspetti il film “Buena Vista Social Club”, dove Wim Wenders riscopre musici- sti anziani dimenticati dal pubblico. Anche tu sei riuscito a riportare sul palcoscenico una vecchia gloria del rock come Toni Vilar.
“Buena Vista Social Club” di Wim Wenders è stata un’operazione di archeologia, di antropologia musicale, di ricerca sulle fonti originali, e un po’ anche la “Vera leggenda di Toni Vilar”, un film che va a scavare sull’immaginario musicale e sul discorso della memoria. È un film di memoria, è un film di ricordi, di flashback, c’è la voce narrante, c’è un mondo dove tutto è già successo. Trovo che sia un paragone molto sensato. “La vera leggenda” è anche il sogno di riportare sotto le luci della ribalta questo grande cantante. E ci siamo riusciti grazie al gran lavoro di Giuseppe. Il festival di Roma ha fatto nascere questa curiosità intorno al film che poi è continuata con il “festival TriBeca” e continua tutt’oggi con proiezioni in giro per il mondo. Per me Toni Vilar è come un papà musicale, un papà artistico. Aver potuto condividere il palcoscenico con una vera leggenda è stata una grandissima emozione.
Se tu un giorno dovessi perdere i capelli come Toni Vilar, sarebbe un problema?
No, oggi tante cose sono cambiate nell’immaginario degli artisti, e mi riferisco al modo di presentarsi, al modo di stare sulla scena, probabilmente la mancanza dei capelli è relativa. Si può cantare anche senza, Django Reinhardt suonava la chitarra con qualche dita in meno.
Di solito le persone vedono negli uomini di successo una vita fatta solo di successi e di soddisfazioni. Io credo che non sia così, dietro ogni successo si cela anche una vita fatta di gavetta, privazioni, dove molto spesso si tocca il fondo. Hai qualcosa da raccontarmi a proposito?
Nel ’94 fui contattato da Alberto Pirelli che era il manager dei Litfiba, allora in cima a tutte le classifiche. Per un anno ho frequentato la sua casa discografica, fatto dei provini, scritto canzoni per lui. Il giorno del contratto mi sono, però, tirato indietro. Avevo paura che volesse sciogliere il mio gruppo. Io avevo in mente il vertice … il top … pensavo che il mio disco avrebbe scalato il vertice di tutte le classifiche. E avevo rifiutato un accordo con il produttore più famoso del rock italiano. Il disco è poi uscito con un’altra piccola etichetta. E quando mi sono ritrovato a suonare sui palchi delle feste popolari ho vacillato. Ho avuto un contraccolpo psicofisico, attacchi di panico. Non riuscivo più a stare in piedi. Mi sono ritrovato in una dimensione di paura. Mi sono fatto ricoverare. Sono riuscito a riprendere la mia attività dopo tre – quattro mesi.
Con i tuoi due film sei entrato in contatto con le comunità di italiani in Germania, Argentina e New York. Quali sono le tue impressioni? E quali le differenze tra le comunità?
La comunità degli italiani nel mondo è un universo immenso e a tratti ancora inesplorato. È un mondo romantico, poeticamente sconfinato. Le loro storie sono storie pazzesche, come quella di Toni Vilar, partito a 13 anni, e divenuto l’idolo delle ragazzine del Sudamerica. C’è un mondo molto toccante, molto triste, desolato, perchè nell’emigrante c’è molta nostalgia: il suo pensiero è sempre quello di ritornare. In Germania questa cosa è resa più facile dalla vicinanza. La distanza è più corta ed è più facile farvi ritorno in estate. In Germania c’è un forte contrasto con la cultura del luogo, con le usanze, con il cibo. Il mio documentario Doichlanda racconta soprattutto di questo contrasto enogastronomico, di questo desiderio di alcuni ristoratori ad educare i tedeschi alla cultura culinaria. In Argentina l’italiano è a casa sua, perché è il suo corrispettivo, sono due culture latine, molto simili. L’Argentina è un Paese molto caldo, si parla una lingua molto simile all’italiano. Non vi è una distanza culturale accentuata. A New York, invece la lingua ha reso questa distanza più grande. Ho conosciuto persone che sono lì da mezzo secolo e che hanno il ricordo dell’Italia di 50 anni fa, come nazione arretrata. Loro si esprimono ancora nel dialetto delle loro regioni di allora di 60 anni fa (…): è come intraprendere un viaggio con la macchina del tempo a ritroso.
Cosa ti ha dato a livello personale e umano il contatto con gli emigrati calabresi?
Il contatto con questa “calabresità” all’estero mi ha fatto capire tante cose, di me, della mia storia, della mia famiglia, della nostra lingua. È un viaggio, come mi suggerivi tu, nella macchina del tempo, che non smette mai di girare. È un grandissimo patrimonio, storico e linguistico, che dobbiamo tutelare; come se dovessimo proteggerlo dalle intemperie del tempo. Questo patrimonio è riassunto un po’ nelle loro storie, che vanno custodite in film, libri, canzoni, articoli. Un’opera di sicura utilità non solo per noi, ma anche per altra gente credo.
Che tipo di musica fa Peppe Voltarelli oggi? E quali sono le canzoni e gli album a cui è più legato?
Io faccio una musica che sta un po’ al confine tra il folk, il country calabrese di Otello Profazio, le ballate dei cantastorie e la musica moderna che prende spunto dalle atmosfere di Morricone. I miei riferimenti sono pochi e ben identificati: Domenico Modugno, Pino Daniele, Matteo Salvatore, Teresa De Sio. E poi ci sono i musicisti con cui collaboro come la Bandabardò, il cui chitarrista Finaz ha prodotto due miei dischi da solista. Tra le canzoni a cui sono più legato c’è “Raggia”, una mescolanza di tarantella con il Punk. Tra i miei brani da solista c’è sicuramente “Turismo in quantità”, che è un’ironia simpatica della mia terra o “L’anima è volata”, un brano su un mio caro amico, Claudio Mazzitello, deceduto in un incidente. “Onda Calabra” è forse la sintesi più fortunata della mia visione della “calabresità”, un po’ surreale, un po’ avveniristica; è forse quello che tutti avrebbero voluto dire, ma non hanno mai detto, cioè questo fatto di sentirsi un’onda, di sentirsi uniti.
di Emilio Esbardo
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