Berlino, città della musica (2)

Foto: Emilio Esbardo

di Paolo Tacchini

Ci si chiedeva quali soluzioni avrebbe offerto Berlino per l’invasione artistica che affronta e ormai si disperava, dato che invasioni più serie sono alle porte. Difficile pensare a salon des refusés, di quelli che nella nostra lingua ministeriale si chiamano bamboccioni, mentre si montano le tende per i refugée, quelli che fanno paura davvero.


Ma la vita sulle strade è da difendere anche, soprattutto in tempi di crisi e paure, che quando si smette di difendere la strada la gente torna a chiudersi in casa e le paure a strisciare.

Ma se i tedeschi hanno un problema in agenda, nel giorno segnato lo affrontano e di lì a qualche anno sfornano soluzioni, lo fanno così, senza vantarsene, un po’ alla Phil Collins, o alla Merkel dovremmo dire. 

Ed ecco un primo esempio, alla tedesca, un fulgido esempio. L’East Side Music Days Street MusicFestival. Lo chiameremo comodamente l’ESMDSMF. Con un nome così lungo è difficile aggiungere qualcosa, ma ci proveremo, avvicinandoci di più, come falene, al fulgido esempio. 

Già il nome è un programma, ma attenti al programma vero: solo musicisti da strada, oltre 150, selezionati tra i 12345 e passa di quelli suonano a Berlino. Come recita il programma: aspettano di essere scoperti da te, cioè da me, che leggo la locandina dell’evento. Ed è a ingresso libero!  Fulgido esempio. Certo che c’ero. Ho perso la caduta del Muro ma dopo un po’ capisco quando accade qualcosa. E poi quelli aspettano di essere scoperti da me e io odio far aspettare. Comunque ci vado solo il secondo giorno, per fargli capire che anch’io ho una vita. 

Dal programma non è chiaro chi lo organizzi, chi lo abbia ideato, troppa trasparenza a volte fa un po’ cheap, un po’ troppo start up, gli organizzatori sfumano elegantemente ai bordi del fulgido esempio, ma è chiaro che colui che sia mette a disposizione dei menestrelli di Berlino uno spazio importante e sponsor ancora più importanti. Coca-Cola, Mercedes, Beck’s, Nhow e tanti altri che passavano di lì e si son detti, ma che iniziativa edificante! Lo street festival naturalmente offre street food internazionale grida la locandina…

Ma soprattutto è un concorso, quindi ascolteremo gente motivata. La selezione iniziale è un altro elegante mistero dei misteriosi ideatori ma ecco un quesito necessario a capire meglio l’evento, chi siano i promotori, e last but not least, a far capire che non sono ingenuo, come falena. Cosa vincono gli artisti?

Vado a vedere i benefit per i musicisti e riconosco che gli organizzatori hanno capito con chi hanno a che fare. Un corso di formazione di tre anni in una scuola di produzione musicale! Vabbè, solo uno, per 150 partecipanti selezionati su chissà quante migliaia. Ma nella vita bisogna sbranarsi un po’, sennò che ne facciamo di tutto il testosterone e zuccheri e caffeina che ingurgitiamo in cheeseburger birra e club mate.

E poi altri premi, una registrazione nello studio professionale dell’albergo Nhow, sponsor, che domina il fiume e la strada dello street festival con la sua splendida architettura sospesa. Persino un opening di qualche evento del Mercedes-Benz Arena Berlin, altro sponsor principe e altro castello astronave che domina la strada. Poi la possibilità, ma questa per tutti i partecipanti, di mettere la propria musica on line tramite Spinnup, che la distribuisce su Itunes e Spotify, come la maggior parte degli artisti fanno già da soli, ma… Ma soprattutto Spinnup declama, vale la pena citare il programma:

Backed by Universal music, the talent scouts have a good chance to get your music in front of the big guys…

La Universal, altro sponsor, tramite Spinnup, e altro castello postmoderno che domina la strada concessa al festival dei musicisti da strada. E poi sconti su attrezzature musicali presso i grandi distributori di JustMusic. Giusto, far girare l’economia. Dei grandi distributori. Lascia che i pargoli vengano a me, un esempio di cooptazione dei soliti giganti, i Big Guys, che si lasciano gentilmente salire sulle scarpe i lilipuziani. Premi per i quali non si saranno mossi di nemmeno tre centimetri gli schienali delle sedie degli uffici finanziari di Cocacola Mercedes Universal NHow. Neanche in questi tempi di crisi. Soprattutto in tempi di crisi, dato che riguarda solo i lilipuziani, la crisi. E non è certo scollegato dalla crisi il numero crescente di musicisti nelle strade… ma stiamo parlando del festival non buttiamola in caciara.

Foto: Emilio Esbardo

Però, i castelli degli sponsor principali, Coca & co, mica trattoria Pinuccia, tutti schierati su quello stradone su cui organizzano la festa, come il padrone del saloon, quello del bordello, quello delle carrozze e quello delle miniere (del villaggio globale) che offrono una festa ai paesani, rivendendogli la strada. Sarò io che simbolizzo. Chiunque sia l’ideatore lo fa gratis, ci informa il programma. Nel senso che i musicisti da strada non devono pagare per suonare per la strada, e neppure le persone devono pagare per vedere i musicisti da strada che suonano per strada. Carinissimo. Sì, gli organizzatori chiunque siano e non ne abbiamo alcun sospetto, hanno capito chi sono i musicisti da strada. Dei disperati a cui dare briciole detassabili per autopromuoversi nell’eterna immagine del gigante buono. Oppure i miei sono pregiudizi, non sarebbe la prima volta, i pregiudizi come le finestre ci servono a far quadrare il paesaggio. Le sane conferme delle nostre prognosi ci convincono di essere dalla parte dei dottori, o comunque non da quella dei pazienti. E poi scopri che è sempre tutto diverso. Sono le aspettative a tradire sempre e quando io parlo di musica dal vivo ho le aspettative in fibrillazione. Viziato. La vita mi ha viziato, riguardo alla musica e spero che continui a farlo. E la vita mi ha svezzato riguardo al marketing e alle multinazionali. E poi cosa serve il grande lavorio degli event manager se non a creare aspettative e a soddisfarle, o sorprenderle? E io mi attengo ad aspettarmi quanto dice il programma. 

Centocinquanta artisti in due giorni, ovvero ne suonano molti contemporaneamente, ergo devi fare delle scelte, una sorta di degustazione, ma questo è comune alla maggior parte dei festival. Bisogna considerare educativa l’abitudine a fare delle scelte, suppongo. Oltre ventimila visitatori nella scorsa prima edizione, ci dice il programma!! Siccome ho un’educazione scientifica calcolo che per due giorni di festival siano diecimila al giorno. Chissà che festa!? Trattandosi di musicisti da strada e quindi beginner, nuovi arrivati o “duri e puri”, spero in un risultato meno preconfezionato e generico del Karneval der Kulturen, che comunque è una festa urbana degna di tal nome, alla tedesca, cioè tanta organizzazione, tanto cibo e altrettanta e più birra, tanto per vedere dove la macchina imbarca se la sommergi.

Nel caso del più discreto ESMDSMF non parliamo di chilometri di strade chiuse al traffico e invase di gente né di una carrellata di gruppi selezionati per genere da tutta la Germania, parliamo di un concorso tra quelli che sono arrivati a Berlino con chitarra o sax o cahon e si son messi per strada. Mi sembra che fossimo d’accordo (pluralia aziendalis) sul fatto che questa marmaglia rappresenti qualcosa di più di ciò che racimola nel cappello. Oder? Ci siamo persino avventurati a suggerire (pluralia managerialis o deresponsabilizzantis) che la vita dell’artista a Berlino, particolarmente del musicista, ma i confini sono sempre più sfumati, possa rappresentare qualcosa di più grosso del dramma di singoli fannulloni (definizione ministeriale) che dopo la laurea in economia hanno scelto la chitarra per dispetto ai genitori, o per ritrovato rispetto di sé stessi, e ora offrono uno svogliato servizio in uno dei 6789 e passa degli spot gastronomici della città.

Che c’entra la ristorazione con la musica? A Berlino sono simbiotiche; ma cosa non lo è, a Berlino?

Non è solo un caso che riguarda gli italiani, anche se noi lo rappresentiamo col nostro innato istinto per la rappresentazione. E per il magnare. Berlino ha sempre amato mangiar fuori ma ora divora se stessa, sempre grazie all’immigrazione crescente. jawohl, l’immigrazione fornisce tanti nuovi imprenditori, caro il mio bel Paese, non è solo fuga di cervelli, pennelli e debosciati (definiz.minist.), ma anche fuga di spiccioli, rimesse al contrario, quanti paparini, tassisti, chirurghi, che hanno investito quassù, ora incalzati dagli amici ammettono: mio figlio ha una focacceria che aggiusta bici e disegna felpe e fa corsi di yoga, o forse massaggi, con dj, a Berlino… E l’immigrazione soprattutto porta nuove ricette, nuove idee, nuovi gusti, tante nuove bocche e tantissimi nuovi lavapiatti, pagati nulla ma che rompono tutto perché sognano di suonare la batteria mentre insaponano i flute. 

E l’immigrazione è sempre stata un flusso di rinnovamento artistico. Il pressapochismo cartografico di Cristoforo Colombo e la tratta degli schiavi ci hanno dato cose come il jazz e il tango.  Certo le pretese artistiche, come le pretese in genere, vanno scremate. Se il cappuccino ha piú schiuma che latte qualcosa non va, di nuovo, il barista stava immaginando di essere Miles Davis mentre il vapore fischiava. Se in Italia ci sono più scrittori che lettori, qualcosa non va. Qualcosa non va’ se l’ineguagliabile Banksy scrive: “all artists are prepared to suffer for their work, but why are so few prepared to learn to draw?”.  Un mondo di pretendenti? Di saltellanti Wannabe? Guarda me, guarda me! Gli Wannabe non vanno confusi con gli wallaby, che sono i canguri a cui sparano gli australiani perché sennò gli ammaccano le auto balzando a frotte sulle loro strade, ma non sono neppure tanto diversi. Se salgono sulla metro e con un flauto sodomizzano la Moonlight Sonade di Beethoven, insieme a qualsiasi pensiero viaggi per l’aria, in quel caso sono wannabe. Per alcuni vanno protetti, altri si comprano apposta lo spray al peperoncino.

É sempre stato così? A WorldWideWanna.be?

No, è normale che il numero dei pretendenti artisti sia cresciuto persino in relazione alla popolazione.

Perché c’è più educazione, direbbe forse Eco, chiunque abbia internet può passeggiare per i maggiori musei al mondo, o per Venezia, anche diventare web designer o event manager, con la Wii forse puoi diventare gondoliere.

Vero, più educazione, facciamo eco noi. Ma per onestà io aggiungerei anche: e perché ce ne è molta di meno. Conta molto meno ora l’educazione, le maestre e i genitori sono stati zittiti dalla tv il millennio scorso, la Tv nella quale hanno infilato dentro ogni cosa che dovesse essere discussa e ripetuta, per lo più reclam, sedativi, procedendo ad un graduale appiattimento di schermi e intenzioni, la tv ora ingoiata da internet, che democraticamente chiede di far delle scelte, delle domande, a una popolazione che non ha più domande, che sceglie di non scegliere, sfoglia liste di risposte, proposte da Lidl, Zalando, Tinder, FB, dalle eterne Coca-Cola Mercedes Becks Universal. The Big guys get bigger sempre e solo ripetendoci la stessa domanda, do u wanna be? Be what? Non importa cosa, la pubblicità di te stesso. 

Was uns bleibt ist Party, ciò che rimane è il party, recita uno dei graffiti che sottotitolano meglio Berlino. In un mondo che ha minato la credibilità degli sforzi, dandoci un telecomando per tutto, che ha minato la credibilità di ogni istituzione, che come saluta spara, che ha edonizzato la società sincronizzandola su schermi e pensieri sempre più piatti, la vita dell’eroe da palco sembra più desiderabile che mai. Quella del calciatore, fantastica ok, ma presto scopri che se vuoi assomigliare a quelle chiome meshate con giacche sciancrate e donne scosciate  devi comunque avere un fottuto talento nei piedi e ancora non basta.

Ok, è il momento, faccio Outing. Lo faccio. Un effetto un po’ perverso che mi fa la scrittura. Lo nascondo in questo articolo, ma lo metto on line: io detesto il calcio. Lo detesto tutto, dallo stadio e tutto ciò che contiene alle sue periferiche nel cervello di quasi ogni mio conterraneo. Tutto, tranne lo sport in sé, che è molto bello. Ma detesto quello che ha fatto, al mio paese in particolare. O quello che il mio paese ha fatto al calcio? Comunque, a favore del calcio, dello sport, ricorderei che puoi costruire a tavolino un successo musicale planetario con una persona su dieci di quelle che incocci per strada, se ti chiami Universal, mentre il più scarso calciatore di serie C è già un piccolo genio, almeno nei piedi, e conosce da giovanissimo i sacrifici del talento, la Nike non lo può costruire né avvalersi di una legislazione abbastanza disinibita per clonarlo. Per fare certe cose ci vogliono ancora i genitori giusti. Sennò meglio imparare a suonare la chitarra,…certo poi scopri che anche la chitarra…meglio un cahon. Il Cahon é uno strumento che sembra una scatola di legno, perché lo è, in effetti, finché non lo tocca qualcuno bravo, allora può sembrare una vera sezione di percussioni. Ne vedi una decina, poi riconosci quello bravo, e magari scordi di scendere alla tua fermata. Anche il cahon è duretto. Ma non importa, non bisogna saper suonare oggi per suonare, ask the dj,… Fai altro, prendi un bel carillon gli metti un microfono accanto, gli metti su una base ritmica e ti metti uno smoking e balli, tranquillo come una palma. Di tutto pur di non tornare rimetterti la cravatta. 

Né il figlio del tassista né quello dell’avvocato o del chirurgo sognano di replicare il castello di sacrifici e convenzioni che i genitori hanno costruito, certo pensando a loro, a loro e nient’altro, non molto al mondo che gli lasciavano… Viziati? Di certo un pochino, il mondo è prono ad un’ideologia economica chiamata consumismo, che di per sé tecnicamente è un vizio, o un virus, se facciamo i biologi, divora l’organismo che lo ospita. Non ci siamo viziati da soli. Oggi siamo alla frutta ma siamo cresciuti a tavola e con quello che abbiamo mangiato siamo ancora sazi. Parliamo ancora con la bocca piena e quasi solo di cibo. Et circensem. Per tutto il resto c’è un un Iphone e naturalmente Mastercard.

Per questo siamo viziati. Molti wannabe sono cresciuti senza buoni consigli, tanto meno per gli acquisti. E con una sensorialità, dove si forma il gusto, intasata sin dall’età della formazione da un mainstreaming dilagante in cui la bassezza assicura alti indici di ascolto, che ci scuota il comprendonio fino a renderlo obsoleto. Fin quando non ascoltiamo più, semplicemente sentiamo quello che passa il convento, come ai tempi dei conventi. E replichiamo quello che sentiamo, un tempo il latino, ora la techno. Siamo come siamo, ci ha insegnato a dire alla maestra Craxi, un gourmet statista del millennio passato, molto citato in giudizio, che a sua volta citava una cantante francese. Ma questo non cambia le cose, anzi, tra gli artisti come tra i camerieri ce ne saranno di più o meno motivati e dotati, ma per scremare l’arte bisogna darle spazi e occasioni, luoghi veri con gente viva che possa vedere e fare scelte vere. Non serve infierire, magari chiamando la polizia ogni volta che ci sentiamo soli, disturbati dall’allegria degli altri, alle 22.01.

Sogno che la BVG anziché cacciare i musicisti li ingaggi, senza arricchirli per carità, e gli offra una cinquantina di spot ogni giorno, non sulle carrozze, ma nelle sue eccellenti stazioni. Investimento minimo. Li selezioni se gli va, o lo farà il pubblico. O dobbiamo trovare sempre solo altri distributori di waste food, pubblicità murali e video permanenti a riempire i nostri luoghi comuni, tutti lì immateriali, a darci del tu?

E l’arte da strada e la musica live sono solo branchi salterini di wannabe? un’orda di viziati? o sono proprio il contrario?

La strada, potremmo invece dire, è il momento in cui uno wannabe si ridimensiona e riconsidera altri talenti: Ho la chioma giusta, ho lo sguardo vitreo, eppure non apprezzano le mie canzoni folk, aprirò un negozio di magliette mangiabili… La strada non è uno studio dove ti ricostruiscono. Chi sa guadagnarsi qualcosa in strada è bravo davvero. Un violinista tra i più famosi si mise nella metro a NY, dove ovviamente nessuno lo riconobbe e guadagnò qualche decina di dollari. Molti sono validi e anche di più, ne ascolto molti di cui penso, se questo potesse vivere della sua musica il mondo sarebbe un posto migliore. Se se se….se l’accademia non fosse stata tanto censoria con Hitler, che pure si è dimostrato un visionario notevole… Molti vogliono essere artisti perché hanno davvero qualcosa da dire. Molti perché qualsiasi cosa dicano vogliono che abbia a che fare col piacere. Was uns bleibt ist Party. Ma soprattutto questi menestrelli sono la frontiera tra la desertificazione dell’esistenza elettronica e la resistenza della vita viva, del contatto reale, dell’emozione vissuta e compartecipata. Sto suonando davanti a te, ti prego ascoltami trenta secondi, ascoltami davvero, anziché postarmi su fb e andartene, aspettando che altri ti dicano quanto u like me. Sbronzi di tecnologia, viviamo di postumi.

Il coraggio di vivere, il mestiere di vivere, ascoltare, guardare, scegliere, amare, qui e ora, piuttosto che annullarci nel mestiere di clickare e navigare rarefatti nel fumo di “persone che potresti conoscere, cose che potresti fare, eroi che potresti essere, farmland che potresti coltivare…”. L’artista da strada, con un coraggio che la maggior parte dei padri tassisti e chirurghi non hanno avuto mai, ci mette la faccia e tutto il resto per dire quel che ha da dire. Anche ai propri padri, su quel mondo che gli hanno lasciato mentre pensavano solo al taxi o all’isterectomia, tutto per i figli, tutto per loro, una tv in ogni camera. E l’artista per la strada lo canta o lo mostra ad una società che trova l’indifferenza sempre più spendibile contro il caos del tutto, che trova il coraggio sempre più imbarazzante, fuori luogo, non lo comprende, gli pare un po’ conflittuale, se non legato al sano profitto e al circensem. The show must go smooth. Questa attitudine della gente si riflette anche in una musica “promossa” sempre meno incline a imbarazzare, se non per la bassa qualità o per la scollatura del tanga. La smoothizazzione di massa, che giustamente inizia dall’industria del tempo libero, non prevede conflitti, se non orgiastici.

Ma Berlino. Berlino che si scrolla di dosso muri e confini. Berlino che parla ventisette lingue male ma si intende sempre e che difende negozietti, affitti ragionevoli e mercatini, che ama la strada, che apparecchia cene sui marciapiedi fuori dalla finestra, che è un esperimento on stage, un brainstorming di soluzioni. Il vero laboratorio su cui la Germania ha fatto esperimenti di convivenza e soluzioni prima che in Europa. Duri, senza mai perdere la tenerezza, diceva Che Guevara… Berlino sembra cercare una sua via in tal senso.

Ma de che parli? E chi è Berlino? La gente? Le istituzioni? 

Se ti sembra che la stia buttando in caciara e non stia parlando del festival, hai torto, pregiudizievole lettore. Semmai la butto in caciara per non parlare del Festival. Ma ora sono alle corde, perché quale esempio migliore della tenera efficienza di Berlino, dell’ East Side Music Festival, il festival dei musicisti da strada tenuto lungo il km di muro dipinto, la firma della libera Berlino.

L’East Side Gallery. Io l’avrei chiamato Freiheit Promenade, ma la storia ci insegna a digerire nomi sbagliati.

Seguo il consiglio illuminante di una gentile ragazza con maglietta rossa e badge dello staff, che alla domanda, dove trovo lo spot numero 7, mi dà la dritta buona per la vita: se prosegui lungo il muro non ti perdi e trovi più o meno tutto. Poi aiuto altri tre dondolanti tizi con badge e maglietta rossa a leggere la mappa dell’evento, uno mi dice a destra, l’altro dice a sinistra e il terzo dice genau.

Infine ho fatto da solo e dopo dieci minuti mi sono persuaso che lo “spot” che cercavo era un lampione sotto uno di quei nuovi uffici residenziali, dove la domenica passano due o tre persone al giorno, così vicino e così lontano dalla folla sul marciapiede opposto, separato da sei muri di auto, il traffico capitalista che sgasa sullo stradone socialista. Sono solo io e il lampione, che in quel momento si accende, le serate si accorciano. Né musicisti né altri. Ma anche la folla sul marciapiede opposto è minore del solito, deviata sul lato non dipinto del muro dove hanno sistemato quasi tutti gli spot, rendendoli meno pittorici e pittoreschi, ma più riparati dal traffico, di fronte al prato che digrada verso il fiume dove molta gente si può raccogliere. Tutti gli spot tranne qualcuno, tipo questo. Lo spot per i castighi? Perché selezionare degli artisti e poi metterli dietro la lavagna? Capii che quello era il punto che cercavo non perché ci fossero segnali ufficiali della cosa ma per via di una lavagnetta appoggiata al lampione, come le memorie di un ubriaco. Lavagnetta = tablet di ardesia del millennio passato, grossa proprio come un tablet, su cui stava un indizio. Il primo gruppo che era previsto in quello spot aveva lasciato un messaggio tanto chiaro quanto sibillino: Andiamo a cercarci uno spazio più decente.

Ma che spocchiosi questi artisti da strada! Bamboccioni. Gli artisti successivi hanno sottoscritto il messaggio, su quel tablet dell’età della pietra, idem come sopra. Nessuna maglietta rossa dell’organizzazione in vista in quel lato della strada per circa un km,…Una caccia al tesoro? Non sono ancora pronto a ricevere la novità come buona, non sono una persona flessibile e quando voglio ascoltare musica voglio ascoltare musica, ma sospendo il giudizio. E vabbè, i musicisti da strada sono sempre un po’ degli Aristo gatti. Valli a trovare…

È un km di muro, un km di festival, anzi di più, dato che prende anche un po’ della sponda dopo Oberbaum Brücke, forse sembrava brutto al festival da strada lasciar fuori dalla scena l’hotel Nhow, sponsor, e il nuovo palazzo Coca-Cola, che pure  sponsorizza il festival della strada su cui rosseggia pudico. Ma con un po’ di fortuna sono riuscito in venti minuti a trovare il gruppo rock e a sentirne l’ultimo pezzo. Applaudo, ipocrita come mi fossi goduto tutto il concerto, ma felice di poter provare la mia nuova applicazione Apple di applausi finti. Siccome non c’è molta gente la metto a livello stadio.

I rocker mi guardano imbarazzati, teneri, antiquati come il muro che gli fa da sfondo, chiedendosi perché li perseguiti, chiedendosi perché non hanno più delle groupies, probabilmente in cuor loro mi danno la colpa, ma capiranno un giorno, capiamo solo quando restiamo soli. Noto che il supporto tecnico è minimal, come si dice, cioè nullo, ogni artista deve portarsi cavimicrofonistrumentiamplificatorischedeeffettisgabellicarrelli e montare e smontare fino all’ultimo, quindi ho 20 minuti buoni prima del prossimo artista per godermi altri “spot” e farmi un boccone. Non ho mangiato apposta, streetfood internazionale dice il programma.

Due magliette rosse con badge e una videocamera mi chiedono chi sia il prossimo artista a suonare, glielo dico, gli faccio lo spelling e quando dopo pochi minuti e qualche rutto sono riusciti a digerire l’informazione, se ne vanno, hanno visto che è diventato troppo buio quello spot per le riprese, mica novellini. Mi dirigo a mangiare. Streetfood internazionale! Chiamale aspettative, chiamalo appetito ma non mi sembra un’impresa difficile a Berlino, ogni mercato rionale ha eccellenti banchetti cinesi, greci, italiani, ucraini, canadesi, persino tedeschi, e poi cinesi che si fingono coreani, thailandesi che si fingono vietnamiti, albanesi che si giurano italiani, filippini che si fingono giapponesi, italiani che si fingono koreani, puoi trovare sempre qualcosa di buono. Ho l’acquolina, un effetto un po’ perverso che mi fa la musica. Ma tra il dire e il mangiare c’é di mezzo il muro, purtroppo, e sia per lungo che per largo. Infatti bisogna percorrerlo tutto senza trovare una ciambella o una birra. Solo quattro o cinque “spot” di musicisti da strada che tendono ad aspettare il silenzio degli spot accanto. Poi la fila di azzurre toilette, e infine trovi ovviamente la birra. Di più sarebbe stato sadismo, in Germania.

Colpa mia se non ho ancora un tedesco impeccabile e temo che sia una deficienza che deriva da un’altra, quella di non riuscire a considerare la birra come un pasto. Io se ho fame ho fame, non sono una persona flessibile, sono viziato, ma per il cibo occorre proseguire ancora un pochino tra la folla altrettanto smarrita, qualche minutino al semaforo, attraversare la strada in gregge e finalmente, nel pittoresco spazio vuoto di fronte all’Arena Mercedes Benz trovi una decina di chioschi brillanti coi loro hobbit indaffaratissimi. Mmmh una decina di chioschi, per diecimila visitatori al giorno? Farei il calcolo ma ho troppa fame, ma il risultato ce l’ho davanti, ogni chiosco attorniato di altri muri semovibili di persone. No, ne vedo uno, l’ultimo sul fondo, che ha solo tre o quattro persone davanti. Ah, mi illudevo, quello è un altro spot punitivo, per musicisti dietro la lavagna. Penso positivo, perché sono in fila: intanto ho ascoltato per un paio di minuti un paio di gruppi di passaggio. Poi ho constatato con quale perizia militare i tedeschi sappiano ogni volta rinnovare quel ciclo idraulico che anima le loro feste, barili di birra e bagni chimici, sempre insieme, come zebre e gnu. Ma nello sforzo di trovare cose positive mi sono ritrovato tra i denti qualche perplessità duretta, tracce di guscio, come si dice oggi, come facessero tutto in una fabbrica di scimmiette.

Ho notato che i vari spot sono più minimal di un Chewing gum sull’asfalto e disposti in modo tanto fantasioso che viene da credere che chi lo ha fatto, lo ha fatto col dito su una mappa. Col dito un po’ grosso e sporco di ketchup, e forse la mappa un po’ piccola. E che a livello non del tutto conscio sia lievemente disturbato dai musicisti da strada.

Ma poi ho notato che ci sono un paio di spot più speciali. Un bel po’ più speciali. Uno su una barca in mezzo alla Spree con persone a bordo e un impianto sufficiente a bucare il vocio della riva affollata. L’altro spot è un bel palco da concerti, con centinaia di posti a sedere di fronte, comodamente situato accanto a cibo, birra e bagni, il cui impianto interferisce con almeno un paio di spot più vicini. Strano per un festival con concorso questa disparità. Davanti ad alcuni artisti che suonano, non tutti, vedo un paio di maglietta rosse dell’organizzazione, davanti a qualcuno anche una telecamera,.. mi stavo proprio chiedendo quale giuria potesse avere il dono dell’ubiquità per giudicare 6 o 7 performance contemporaneamente. E continuo a chiedermelo. Mi informano che alcuni artisti, quelli ripresi da telecamera, hanno firmato delibere per l’utilizzo dei video, le quali permettevano l’utilizzo del video da parte dello stesso artista per poche centinaia di euro. Carinissimissimi.

Ma chi sono io per giudicare, dato che ormai la fame mi annebbia un po’. Dopo soli quindici minuti di fila e 9,50eu ho in mano una crepe, credo, e una coca verde militare. Non accuso di cupidigia questi chef su ruote, la legge domanda offerta è la più facile da capire in questi tempi di orde affamate. A questo punto i miei venti minuti sono passati due volte, torno allo spot quasi correndo e riesco a vedere quasi tutto l’ultimo pezzo dell’artista che aspettavo, sorprendentemente intonato con le sirene di un ambulanza imbottigliata al semaforo a pochi metri. Magie urbane. È scesa la sera e l’artista suona al buio, accanto ad un cassonetto, molti si spostano verso spot più vicini alla birra, all’odore di salsicce, alla luce, ai bagni, restano quattro appassionati, nessuno è della giuria che dovrebbe occuparsi del concorso. La mia applicazione Apple per applausi rende ancora una volta il tutto ancora più ridicolo. Quando capiranno che sono un artista concettuale? L’artista, quello vero, vorrebbe almeno suonare qualche bis per i fan che hanno trovato tardi lo spot, ma altri musicisti sono in fila per mettersi a suonare nel buio, accanto al cassonetto… Parlo coi musicisti di quell’iniziativa, tu pensi sempre che stiano lì ossessionati dalla musica e invece scopro che miagolano come gatti perché non hanno avuto il gadget promesso, non hanno visto una giuria, cosette così. Che puntigliosi questi Aristo gatti.

Di artisti vorrei parlare dopo questo ghiotto Festival sulla strada. Ma è colpa mia, ho avuto fame, ho chiesto alle persone sbagliate e ho fatto scelte sbagliate, non perché è un festival vuol dire che puoi mangiare e ascoltare musica contemporaneamente. Con competenza potrei solo dire che la crepe non era male, per essere così spessa, a meno che non fosse un pancake, allora era un po’ sottile e bruciacchiato.

L’idea pure non é male. Non tanto quella di un festival, che sempre più significa assembramento di sponsor, e dura il tempo di ubriacarsi e fare la fila per i bagni. Ma l’idea di permettere ai musicisti di utilizzare quel lato del muro protetto dal traffico e ricco di turisti, i famigerati turisti che però spesso sono più curiosi dei berlinesi. Quel muro che in un momento di grande entusiasmo Berlino ha devoluto ai graffitari di tutto il mondo perché vi riscrivessero i valori. Leggo che in quel punto passano circa 10.000 turisti al giorno. Mi ricordo dei 20.000 visitatori che declamava il programma, faccio due conti, sempre per la mia formazione scientifica, ma non mi tornano e rinuncio.

Se di arte dobbiamo parlare è dell’arte organizzativa, cui questo paese deve molta della sua fama. Un fulgido esempio, questo festival on the road. L’hanno tenuto proprio lì, dove è rinata la Berlino città, sulle macerie di quella politica, con milioni di persone per buttare giù un muro, e ora a migliaia per tenerlo su, quel simbolico pezzo di grande storia, persino gli attori di Baywatch. Un festival non troppo simbiotico col prodotto. Organizzato a tavolino, si diceva un tempo, ma ora sono enormi tavoli su cui si tirano i propri tablet come dischi da hockey, ed è tutto più confuso. Un esempio fulgido di come una delle facoltà (universitarie!) più promosse, in quest’epoca promotrice, quella della Promozione di Eventi, promuova un sacco di bravi ragazzi (Event Managers o promoter, un tempo detti maestri di cerimonia, poi pr) insegnandogli in diversi anni di studio le tre regolette auree della promozione contemporanea:

A) trovare le risorse che puoi pagare meno, chiamarli “artisti”.

B) Trova lo sponsor che ti paga di piú,

C) trova lo spazio che puoi pagare meno e rivendere più caro.

Certo poi ci sono altri trucchetti, escono dall’università mica dal seminario questi promoters.

d) Usa Power Point  e) Fai fare a Fb, Tweet, Whatsup, il lavoro di promozione così che l’artista scopra una sua funzione sociale, cioé si sbatta lui.  f) Mettici dentro un concorso e vedrai che il più asociale Syd Barret si aprirà un profilo fb, Tweet, Whatsup e Tinder per ogni suo parente.

Keep Calm and Carillon.

Probabilmente dopo aver imparato tanto bene a elettrizzare gli sponsor e a promuovere l’autopromozione degli artisti, in una seconda parte di studi, sicuramente un Master in via di sviluppo, impareranno anche a curare l’evento se non a capirlo. Le cose non possono che migliorare, nel caso si riesca a capirle. O almeno a immaginarle. Io immagino ancora poco, e ricordo meno, ma ricordo una cosa, che il salon des refusés lo organizzarono i refusés, non il municipio, ne il Louvre. Migliaia di musicisti a Berlino sono una forza creativa che se meglio organizzata potrebbe forse creare soluzioni migliori di qualsiasi tentativo calato dal trentaduesimo piano di qualche ufficio prigioniero dei suoi profitti. Mancano spazi concerti, sale prova accessibili. Musicisti, pensate cosa farebbe Fonzie e fatelo. Tutti insieme, tanti fonzarelli organizzati.

Come gli web designer e copywriter e gli altri che dopo aver scoperto, dietro consiglio di Eco, che si può lavorare da casa con internet, addio ufficio, e persino girare per i musei restando a casa, hanno preferito andarsene al bar. Ma tre cappuccini e due torte iniziano ad essere un certo costo e così si sono ricreati degli uffici, tre o quattro euro al giorno, senza un capo attorno, e almeno non lavori da solo a casa. Perché dovrebbero voler lavorare da soli a casa?

La tecnologia ha ancora un bel po’ di scorza umana da penetrare prima che ciò accada. Prima che posti come Berlino diventino alveari, Berlino che ancora basa sulla strada la sua vitalità e forse ancora una volta rappresenta il confine, come fece con la guerra fredda, un caldo confine in questa guerra gelida della spersonalizzazione tecnologica, burocratica e monetaria contro l’opzione umana, l’evoluzione collettiva e consapevole, questa guerra muta che vuole trasformarci in portatori deperibili di chip e sponsor.

Ma quando l’Io, ben rappresentato dal valore che diamo a casa nostra o al nostro ufficio, a ciò che è Mio, sovrasta o scorda, o lavora a scapito di quel Noi, rappresentato dalla strada, quella di botteghe e parchi e caffè e mercati e petizioni, quella delle panchine e delle piste ciclabili, la res publica, quella che serve ad andare ma anche a restare, chiacchierando, quella strada in cui capisci come va il pil di una nazione dal tono dei buongiorno, quella strada la quale quando ne viene a mancare la vita comune allora diventa pericolosa, e tutti diventano sospettosi, la strada civica che ci dovrebbe rendere civili, quando resteremo tutti a casa a coltivare farmland, allora buona camicia di forza a tutti. O come si diceva un tempo, buonanotte ai suonatori.

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