di Emilio Esbardo
L’edificio “Delphi”, negli anni ’30 e ’40, era una delle sale da ballo più rinomate di Berlino. Divenne la mecca dello Swing, musica vietata tra l’altro dal regime nazista, grazie anche alle esibizioni del popolare Teddy Stauffer. Il palazzo, dopo la fine della guerra, è stato utilizzato pure come locale per studenti, il “Quasimodo”. Giorgio Carioti, prendendolo in gestione, lo ha trasformato in uno dei più importanti club di jazz a livello europeo e internazionale, guadagnando la attenzione di giornali come il New York Times, che gli ha dedicato l’articolo “Berlin Turning Into a Mecca for Jazz”.
Qui hanno suonato delle vere e proprie leggende jazz come Dizzy Gillespie, Chet Baker e si è esibito persino Prince. Giorgio Carioti, di origini genovesi ma cresciuto a Napoli si trasferisce nel 1961 a Berlino. Dopo aver terminato gli studi inizia a lavorare come barista al Quasimodo, che acquisterà nel 1975. Agli inizi degli anni ’90 Giorgio acquista anche il caffè sopra il suo club. Oggi lo storico edificio Delphi ospita un importante cinema, il club e il caffè “Quasimodo”. Nel frattempo Giorgio Carioti è andato in pensione. Il nuovo gestore non è molto interessato al jazz. È una calda e soleggiata giornata di settembre quando l’incontro per un’intervista.
Nell’ottobre del ’61 si è trasferito a Berlino, perché questa decisione? Aveva intenzione di rimanervi definitivamente?
È stato principalmente perché volevo andare via da casa, via da Napoli, una città bellissima, dove, però, per me non c’era niente d’interessante. Ero giovane, volevo andare fuori. Sono capitato a Berlino perché avevo degli amici che sono venuto a trovare. Non avevo intenzione di rimanervi. La situazione era interessante: c’era la grande crisi, la Russia, gli Americani, il Muro. Capii che era il posto dove stare. Adesso sono 50 anni che vivo a Berlino.
Mi può descrivere il viaggio, cosa si ricorda dei posti di transito?
Il viaggio non lo ricordo per niente. Mi ricordo soltanto che sono arrivato a Berlino nel quartiere di “Dahlem”. Era ottobre, le strade piene di foglie di tutti i colori, gli alberi, tutto quel verde. Un posto bellissimo. Sono rimasto affascinato. È l’unica cosa che mi ricordo, non so come sono arrivato a Berlino. Forse in treno. Un particolare che ricordo però è stato un mio viaggio successivo di ritorno a Berlino. Mio padre mi aveva regalato la 500. Giunto alla frontiera ho trovato una nebbia fittissima. La macchina era nuova ed io ero nuovo al volante. Ho viaggiato per tutto il tempo in prima fin quando sono uscito a Magdeburgo. Mi sono recato dalla Polizia Popolare della DDR e ho detto: “non mi importa delle conseguenze. Io di qui non mi muovo”. Loro avevano un atteggiamento ostile, erano severi. Ti facevano aprire il portabagagli, ponevano molte domande, ti facevano stare in tensione ma non ti prendevano a botte. Poi si ha sempre una cattiva coscienza quando si ha che fare con la polizia anche quando non hai fatto niente. Il giorno dopo sono ripartito tranquillamente per Berlino.
Il 13 agosto 1961 è iniziata la costruzione del Muro. Si percepiva dunque un’atmosfera particolare in città. Mi può descrivere, per favore, la Berlino di allora? Come l’ha vissuta, percepita?
Io sono arrivato due mesi dopo. In città c’era molta tensione. La gente aveva paura. “Arriveranno i russi”, si diceva, “scoppierà una guerra tra i russi e gli americani in città”. Nel quartiere di “Dahlem”, invece, dove io abitavo, la vita trascorreva regolarmente. La tensione era ai confini dove stavano costruendo il Muro. Nelle altre zone della città la vita scorreva normalmente. Nei media, naturalmente, si raccontava delle varie tragedie, della gente che tentava di fuggire, dei morti. Per il resto già allora Berlino mi aveva fatto una grande impressione. Non c’era molto traffico, era una città aperta, ariosa con i suoi grandi viali. Ho iniziato a lavorare subito per la Siemens. L’anno successivo mi sono iscritto all’università. Vivevo nel Campus, facevo qualche lavoretto per mantenermi. Il tempo è passato via velocemente senza che potessi realmente percepire il Muro.
Lei ha anche studiato a Berlino ed ha vissuto il movimento studentesco. I suoi ricordi? Qualche aneddoto, qualche storia divertente?
Storie divertenti ce ne sono state poche. Vi erano le dimostrazioni, si facevano i raduni. Ho conosciuto Rudi Dutschke, il leader del movimento tedesco, en passant. Ma non sono stato mai attivo. Non facevo parte di quel movimento. Andavo con loro. Io però lavoravo quasi tutto il tempo. Dovevo guadagnarmi da vivere, quindi non ero presente quando c’era una riunione generale. Le dimostrazioni si organizzavano di solito al Ku’damm. È stato un periodo interessantissimo, con tutti i conflitti, con tutte le nuove teorie, la gente che cercava di orientarsi. Contemporaneamente, però, si studiava e bisognava lavorare per mantenersi. Ho conosciuto Dutschke ancor prima che iniziasse a fare politica attivamente. Era molto sportivo. Sono anche andato con lui una volta a giocare a basketball. Poi ci siamo persi di vista. L’ho rivisto sul podio quando era lì a fare i suoi discorsi. Era una grande personalità.
Ha mai abitato nelle case occupate e ha mai praticato l’amore libero?
Assolutamente no. Io ero “molto borghese”. All’inizio ho abitato in affitto presso una famiglia. Poi, successivamente, in un appartamento tutto mio.
Quando è iniziata la sua avventura al Quasimodo? Il Jazz è sempre stata la sua musica preferita?
Io sono cresciuto con il jazz. Già a 13 anni ascoltavo fanaticamente il jazz di New Orleans, Louis Armstrong, King Oliver, etc. A Napoli compravo molti dischi e conoscevo tutto dei musicisti. Vita, morte e miracoli. Venendo a Berlino ho perso un po’ il contatto con la musica, perché ho iniziato a lavorare e ad avere altre occupazioni. Al Quasimodo sono arrivato per combinazione. Il locale era un luogo di ritrovo per studenti e giovani. La gente veniva per ascoltare musica e per bere. Non si servivano bicchierini di vodka, si servivano bottiglie intere. Lì, nel 1974, durante il mio ultimo anno di università, v’incontrai una mia vecchia conoscenza, che era il proprietario stesso del Quasimodo e che mi offrì di lavorare dietro al bancone del bar. Lentamente iniziai anche ad organizzare il programma delle serate musicali. Negli anni precedenti avevo lavorato come rappresentante di un’agenzia di viaggio inglese, che portava in giro per l’Europa gruppi di turisti americani: scuole, università, veterani della guerra. Io ero il rappresentante di Berlino. Avevo organizzato, però, anche concerti per cori americani, maturando così l’esperienza necessaria nell’organizzazione di eventi musicali. Nel ’75, subito dopo la laurea, il proprietario, stanco della sua attività, mi propose la gestione del locale. Allora avevo già 34-35 anni e non avevo più la possibilità di inserirmi in un posto come impiegato di banca o in un’industria. Avrei potuto proseguire nel campo turistico, ma, a causa della mia passione per la musica decisi di accettare l’offerta del mio amico. Ho cambiato immediatamente il tipo di gestione del Quasimodo. Ho puntato tutto sulla musica. Non m’interessava avere persone che si ubriacassero. Abbiamo iniziato a far pagare l’ingresso. Se la gente veniva, era per ascoltare la musica. Ho iniziato facendo esibire gruppi locali e dopo un paio di anni abbiamo ospitato musicisti famosi a livello internazionale.
Se si ascolta un pezzo musicale, senza sapere chi è a suonarlo, si può affermare se è una donna o un uomo?
Secondo me no. Nella musica non credo. Dipende sempre dalla qualità del suono. Da come viene suonato lo strumento. Se senti, ad esempio, un pianista non sai se è un uomo o una donna. Ci sono pianisti che suonano molto delicatamente e ci sono donne che suonano come dannate. Non mi sono mai fatto questa domanda. Non credo però di poterlo distinguere.
Com’era la scena musicale della Berlino divisa? Quando hanno iniziato le grandi leggende del jazz a suonare al Quasimodo?
I grandi nomi, le leggende del jazz hanno iniziato a suonare agli inizi degli anni ’70 nel locale “Quartier Latin” a Potsdamer Straße 96, che era un ex cinema. I proprietari erano quelli che hanno anche aperto il Quasimodo. Il nome all’inizio era “Quartier von Quasimodo” dal “Gobbo di Notre-Dame”. Col passare degli anni il “Quartier Latin” ha iniziato a perdere d’importanza a causa di una cattiva gestione. Noi del Quasimodo alla fine degli anni ’70 abbiamo iniziato a prendere il loro posto, ad avere la loro stessa funzione nella scena jazz. A me piaceva vedere i miei vecchi eroi ed è così che con un duro ma buon lavoro sono riuscito a far suonare nel mio locale musicisti del calibro di Dizzy Gillespie e Chet Baker, per fare degli esempi. Abbiamo anche avuto musicisti giovani ed emergenti della scena jazz di New York. Dagli inizi degli anni ’80 a metà anni ’90, a parte Miles Davis, che già allora non potevi pagarlo, qui hanno suonato i nomi più noti del jazz e il Quasimodo era forse il club più importante di jazz in Europa.
Quali, tra i musicisti famosi, ricorda particolarmente? C’è qualche aneddoto che mi può raccontare?
Tra i più grandi eroi c’è stato Dizzy Gillespie, che accompagnavo spesso in uno dei primi grandi alberghi a 4 stelle a Berlino est, dove aveva una ragazza. In macchina avevo sempre dei poster del musicista, che mi venivano regolarmente confiscati. Con Chet Baker è stata un’esperienza straordinaria. Da noi ha suonato 2-3 volte. Ricordo che una volta, in una di queste serate, il suo chitarrista mi è venuto incontro dicendomi: “Giorgio, Chet non vuole più suonare”. Il locale era strapieno e la gente aspettava lo spettacolo. Sono andato da lui e gli ho chiesto: “What’s the matter?” (“Cos’è successo?”). Lui fu molto vago. All’improvviso ebbi un lampo di genio. Iniziai a parlargli in italiano, che lui comprendeva e gli piaceva. In Italia vi era stato più volte ed era finito addirittura in galera. Ciò ha rotto il ghiaccio e dopo un po’ mi ha confessato che stava male perché non gli avevano consegnato la sua medicina. Io gli promisi che il giorno dopo gli avrei dato i soldi per comprarsela. Finalmente è andato sul palco – questa è una scena che non dimenticherò mai – e ha detto: “This is the last time you see me alive on stage” (“Questa è l’ultima volta che mi vedete vivo sul palco”). Poi ha fatto un concerto strabiliante. C’era dentro tutto, tutto il suo blues, tutta la sua frustrazione. Quello che aveva dentro l’ha tirato fuori quella sera lì. Il giorno dopo si è comprato la medicina.
Lei ha avuto anche Prince nel suo locale. Che impressione le ha fatto?
All’inizio Prince mi era indifferente. Pensavo che fosse qualcuno che cercasse di imitare Michael Jackson. Non mi aveva mai tanto colpito come musicista. Conoscevo la sua canzone “Purple Rain” ma lo show non mi è mai piaciuto. Il giorno dopo un suo grande concerto a Berlino, abbiamo ricevuto una telefonata: “guardate che stasera veniamo da voi con Prince e con tutto il suo seguito. Siamo all’incirca 50 persone. Però non ditelo a nessuno, altrimenti non ci presentiamo”. Non ci abbiamo creduto. E invece sono giunti mentre suonava un altro gruppo musicale, che abbiamo interrotto immediatamente. In una mezzoretta lo staff di Prince ha montato tutto l’impianto. E mentre il suo gruppo ha iniziato a suonare, lui rimaneva seduto di fronte al palco, accerchiato dalle sue enormi guardie del corpo e dalle sue donne di compagnia. A un certo punto il suo manager mi disse che Prince sarebbe voluto andare in una discoteca. Io pensai: “La gente aspetta che suona e questo va in discoteca!”. Mentre imprecavo sento qualcuno che con la chitarra fa: “Bum!”. Era lui. Il concerto è durato all’incirca un’ora e mezza. In quel momento mi sono reso conto di che bravo musicista fosse. Non sono così ortodosso da affermare che solo chi suona il jazz è bravo. Musicalmente sono molto aperto. Siccome non avevamo detto niente a nessuno, dozzine di amici hanno rotto l’amicizia con me. Anche il mio personale ha avuto problemi con amici e parenti. Il locale, nonostante tutto, era pieno, forse gente che l’avrà saputo tramite indiscrezione.
E la scena odierna del jazz a Berlino? Quali sono le differenze con gli anni passati?
La grande differenza tra oggi ed allora è che non c’è più la possibilità, per tanti motivi, di far esibire i grandi musicisti nei club. Non parlo di quelli di prima categoria, ma anche di quelli di seconda categoria. Sono venuti a mancare gli artisti internazionali, cresciuti in scene come quelle di Londra, New York, San Francisco, che portavano le loro emozioni e aiutavano anche il jazz locale ad avere pubblico. La popolarità del jazz è diminuita. Oggigiorno vai a sentirti hip hop o i dj della Nuova Zelanda, di New York, di Londra, che rappresentano quello che il jazz rappresentava 20 anni fa. Magari ritornerà ad essere seguito come una volta, ci sono sempre questi alti e bassi. Comunque la qualità del jazz a Berlino è eccellente, perché ci sono due scuole ottime e vi sono ancora buoni locali come il “b-flat” o “Schlot”. E poi c’è l’ ”A-Trane”, che riesce, malgrado tutto, a portare spesso musicisti anche da New York.
Come ha vissuto la caduta del Muro?
Il 9 novembre, quando è crollato il Muro, avevamo un concerto. Nessuno credeva che fosse crollato. Mi pare che fosse un venerdì, giorno in cui avevamo sempre un avvenimento speciale con giovani musicisti finanziati dal governo. A fine serata stavamo riordinando, quando sono arrivate una quindicine di persone con l’area un po’ strana con gli strumenti musicali addosso. Era una Big Band di Berlino est che aveva un concerto forse nel quartiere di “Marzahn”, dove non c’era nessuno, perché erano andati via tutti. Ci hanno chiesto se avessero potuto suonare nel nostro locale. È stata la prima Big Band della parte est a suonare a Berlino ovest. Il giorno dopo mi sono recato al Muro. Per settimane nessuno riusciva realmente a crederci. Ogni sera veniva gente della zona est che ci conosceva perché sentiva le trasmissioni della radio occidentale “RIAS”, che trasmetteva i nostri concerti. I primi tempi sono stati euforici poi sono cominciati i problemi.
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