Ad impegnarsi attivamente contro la chiusura del locale “Tacheles” c’è anche il Dr. Motte, celebre Dj internazionale, inventore e organizzatore della Love Parade negli anni novanta, allora il festival musicale più grande del mondo. La Love Parade era concepita, secondo le affermazioni dell’ideatore, come una manifestazione per la pace, la gioia, la frittata. La pace stava per il disarmo, la gioia per l’intesa tra i popoli e la frittata per l’equa divisione degli alimenti nel mondo. Tutt’oggi il Dr. Motte è a favore dell’equità e contro gli interessi dei forti poteri economici delle multinazionali e delle banche. Oggi, la sua lotta a favore del Tacheles rappresenta tutto questo: il Tacheles è il simbolo della lotta contro le iniquità e le ingiustizie sociali a livello globale. Ho intervistato il Dr. Motte durante i preparativi della festa a favore del Tacheles del 2 luglio, che sarebbe durata fino alle 12.00 del giorno successivo.
Perché è così importante salvare il Tacheles?
Il Tacheles ha una tradizione ventennale e deve essere preservato, mantenuto così com’è. Noi crediamo che non debba essere toccato né dal sindaco, né da qualche senatore, né da qualche investitore, perché sarebbe uno scandalo. È importante salvarlo, perché qui nel Tacheles gli artisti hanno la possibilità di continuare a promuovere la cultura alternativa in città.
Cosa rappresenta/simboleggia oggi il Tacheles?
Il Tacheles è l’ultimo spazio aperto per la cultura e l’arte nel centro città. Se dovesse scomparire è per colpa degli investitori e anche del sindaco Wowereit, che vi è coinvolto. Chi ha acquistato l’edificio del Tacheles e l’appezzamento del terreno, vuole in realtà, solo fare del profitto. Crede che con la cultura non si hanno guadagni sufficienti. Per vivere si ha bisogno di cultura. Se non si ha cultura, si estingue la vita stessa.
Quanto è cambiata Berlino dalla caduta del Muro?
La città è divenuta principalmente un luogo per turisti, che vengono alla scoperta di una Berlino genuina, vera che non esiste più. 20 anni fa era diverso, non voglio negare il progresso, o meglio, non vogliamo negarlo, ma non si può vietare la cultura e non tutto può essere messo in vendita. I beni pubblici come l’acqua non possono andare in mano dei privati.
Esiste ancora la cultura sperimentale a Berlino?
C’è ancora, ma viene solamente tollerata, come ad esempio, nel locale “Maria am Ostbahnhof”. Quest’anno il nuovo acquirente dell’edificio ha comunicato ai gestori, che sarebbero dovuti andare via per fine maggio. Poi, un paio di settimane più tardi ha fatto firmar loro un contratto valido fino a dicembre. Questo significa che non vi sono più progetti sicuri per la cultura, perché potrebbe sempre giungere qualcuno che compra gli spazi liberi e sfratta i gestori dei locali. Ciò sta distruggendo la caratteristica principale di Berlino: si eliminano lentamente i luoghi a disposizione per l’arte, la musica, il teatro, etc.. È veramente terribile.
Qual è, dunque, secondo lei, il futuro di Berlino?
Berlino ha bisogno di creare una forma giuridica con lo scopo di garantire i diritti degli “addetti alla cultura”, un’associazione protettiva, che ancora non esiste. Ne abbiamo creato una ultimamente, la “Elektrokult”, per dare finalmente una forma giuridica alla scena musicale elettronica, per creare una lobby, in tutto il territorio nazionale. Se non ci si organizza in un gruppo, le nostre richieste non saranno prese in considerazione dalla politica. Se i cittadini non si uniscono e non formano delle lobby di cultura, i responsabili politici, come il senato o i sindaci, daranno ascolto soltanto alla categoria degli investitori e delle banche. La situazione è grave. Noi vogliamo garantire a tutti i diritti civili, mantenere gli affitti in città bassi e alla portata di tutti. E impedire che vengano svenduti i beni pubblici, come elettricità, acqua e gas. Bisogna tenere lontano gli speculatori dagli spazi pubblici.
Quali sono i suoi progetti futuri?
Ho fondato la mia etichetta musicale ed ho pubblicato cose nuove. Io stesso faccio musica, lavoro come dj e sarà così ancora a lungo.
di Emilio Esbardo
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