di Emilio Esbardo
Günther Schaefer è nato il 19 marzo 1954 a Ebern in Franconia. Da bambino, con la chiusura della frontiera tra la Repubblica Federale e la Repubblica Democratica, vive la divisione della sua famiglia. Una parte rimane all’ovest, l’altra è “prigioniera” nella parte est.
Anche la proprietà privata della famiglia viene divisa in due dalla striscia di frontiera, che gli procura un ingente danno economico. Di domenica la famiglia si “riunisce” grazie ad una piattaforma nella parte ovest sulla quale possono salire per vedere e salutare con i fazzoletti i loro parenti dall’altro lato del confine. Suo nonno riesce a far fuggire le sue sorelle nell’ovest. Di conseguenza Günther viene inscritto nel libricino nero della Stasi come persona indesiderata nella DDR.
Non gli verrà mai concesso di visitarla. Dopo aver vissuto i tumultuosi anni rivoluzionari del ’68 a Francoforte, diviene casualmente fotografo indipendente di moda e di musica. Dal 1986 organizza mostre fotografiche in tutto il mondo, è richiesto a New York, Mosca, Parigi, Gerusalemme, Berirut, Tripoli, Praga. Nel 1989 decide di trasferirsi definitivamente a New York.
Quando cade il Muro acquista un biglietto aereo e vola a Berlino, dove con le sue foto documenta gli avvenimenti del periodo. Insieme ad altri artisti fonda la “East Side Gallery”, ossia una galleria a cielo aperto fatta di 140 murales sul tratto più lungo del Muro rimasto a Berlino. Il suo dipinto “Vaterland” (“Patria”), creato per commemorare sia la Notte dei Cristalli (9 novembre 1938) sia la caduta del Muro (9 novembre 1989) lo rende celebre internazionalmente.
Riceve vari premi, conosce Helmut Kohl, personalità politiche internazionali tra cui moltissimi capi di stato e numerosi re e principi. Nel 2004 organizza l’inaugurazione della mostra “Berlin – Bilder aus zwei Jahrtausenden” (Berlino – Foto di due millenni), alla presenza di Helmut Kohl e dell’ex Primo Ministro ungherese Miklós Németh, che racconta le veloci trasformazioni della città in due decenni.
È un’intervista intensa quella con Günther, che mi racconta tratti della sua vita fatta di successi ma anche piena di tragedie familiari, simili a quelle di tante altre colpite dalla chiusura dei confini.
Signor Schaefer com’era vivere in una nazione divisa in due? Può ancora percepire l’atmosfera di allora?
Io ho vissuto nel settore occidentale ma ho una biografia particolare perché ero uno dei cosiddetti bambini di confine. Tutti i ricordi sono ancora molti freschi e presenti. Durante la commemorazione dei cinquant’anni della costruzione del Muro, ho visitato e fotografato i luoghi simbolo dell’epoca come “Bernauer Straße”, “Friedrichstraße”, “Brandenburger Tor”, “Checkpoint Charlie”. Ho discusso con molte vittime presenti all’evento. La mia famiglia è stata particolarmente influenzata dalla chiusura dei confini. Il confine tra le due Germanie è stato chiuso quando io avevo 8 anni. La maggior parte dei membri della mia famiglia del lato materno si è trovata improvvisamente nell’est. I miei nonni e i miei genitori nell’ovest, a 500 metri dal confine. Le nostre famiglie furono divise, le nostre esistenze rovinate. Avevamo perso la nostra campagna: il nostro terreno si trovava in parte nella cosiddetta striscia della morte e in parte nella Turingia nella zona militare vietata all’accesso. Eravamo stati, dunque, distrutti anche economicamente perché il nostro reddito proveniva dalla nostra terra. Non c’era nessuno della zona che non ne rimanesse danneggiato. Ma abbiamo dovuto imparare a farcene una ragione e a convivere con la triste e surreale situazione. Mio nonno ha aiutato a fuggire le sue sorelle rimaste bloccate nell’est, facendole passare per un punto debole, non ben controllato della frontiera. Per questo motivo la nostra famiglia è entrata nel libricino nero della Stasi. Io non avrei più potuto visitare la DDR. Questo però allora non lo sapevo. Non me lo aveva detto nessuno. A causa della mia ingenuità di ragazzo ho provato tre volte. Com’era d’abitudine, al valico di frontiera, mi hanno lasciato aspettare per ore nella sala d’attesa e mi hanno trattato bruscamente. Ad un certo punto mi è hanno ridato la carta d’identità e qualcuno mi ha detto, indicando con il dito: “Lì è l’ovest”. Dopo il terzo tentativo, quando ormai mi ero trasferito a Francoforte, ho capito che ero una persona indesiderata nella Repubblica Democratica.
Come è riuscito suo nonno a far fuggire le sue sorelle?
Non si sa esattamente. Si è portato il suo segreto nella tomba. Io ho una teoria, che potrebbe anche essere completamente sbagliata. Negli anni ’70 ho scoperto un ruscello largo circa 2 metri, che era il confine tra est ed ovest. Certo vi era un recinto ma non era stato fissato bene in acqua. E lì c’era qualcosa come un buco, che io ho fotografato.
Poi il 1968…
Sì, in seguito mi sono trasferito a Francoforte, dove ho trascorso la mia giovinezza. Era il 1968. Nessuno più pensava al Muro. Io ho partecipato a molte dimostrazioni studentesche. Ero ancora troppo giovane per essere in prima linea. Mi limitavo ad una adesione passiva e ad osservare attentamente ciò che accadeva. Lentamente ho iniziato a formarmi come artista. Ho iniziato la mia carriera come tipografo di stampante off-set. Ero impegnato giornalmente a stampare le brutte foto degli altri. Improvvisamente ho cominciato a comprendere la differenza tra una bella o una cattiva immagine. Fui spinto a imparare la fotografia dai miei colleghi che spesso mi prestavano la loro macchina. Io sono un patito di musica rock. In quegli anni non c’era questa massiccia presenza di guardie di sicurezza e si poteva facilmente incontrare musicisti famosi nel loro spogliatoio o seduti tranquillamente in un club. Una volta in un locale un amico mio mi ha detto: “guarda c’è Joe Cocker”. Non volevo credergli anche perché non aveva un aspetto trasandato tipico del cantante. “No!” ho risposto, “Joe Cocker deve sembrare più brutto”. 5 minuti più tardi è salito sul palco con il suo gruppo. Io ho afferrato l’occasione al volo e l’ho fotografato. Le mie fotografie sono state acquistate da riviste e giornali ed è iniziata la mia carriera di libero professionista come fotografo di pubblicità, moda e musica.
Perché ha deciso poi di trasferirsi a New York?
Francoforte, è una città “alta”, piena di grattacieli, non la si può paragonare a Berlino, che è una città estesa e popolosa, una metropoli. A Berlino c’erano qualcosa come 500 gallerie. A Francoforte appena una cinquantina e la scena artistica era limitata. Iniziava a starmi stretta. Capii che dovevo andare via. Francoforte era allora uno dei più importanti quartier generali americani in Europa e avevo stretto contatti con persone di New York. Così decisi di trasferirmi lì.
Accadde però qualcosa d’inaspettato…
Sì, tutti volevamo che il Muro crollasse ma nessuno ci credeva. “Il Muro cadrà tra cento anni!”, aveva dichiarato Honecker. Questa era una delle poche volte che gli abbiamo creduto. Invece il 9 novembre è successo quello che credevamo impossibile: il Muro è crollato. Siamo rimasti tutti sorpresi quanto velocemente il sistema della DDR si sia dissolto senza lasciare nessuna traccia. Segno questo di quanto fosse debole interiormente. Il 9 novembre abitavo già a New York da un paio di mesi. Avevo un forte desiderio di dipingere il Muro e presi il primo aereo disponibile. È così che da 20 anni vivo a Berlino. I primi mesi ho fatto avanti e indietro da una città all’altra. L’unicità del periodo, le forti emozioni e sensazioni, che si percepivano, soprattutto come tedesco, mi portò a tendere sempre di più verso Berlino. Vivere a Berlino, dopo la caduta del Muro, era molto più interessante ed eccitante che a New York. Decisi di stabilirmi definitivamente nel quartiere di “Friedrichshain”, nella parte est, dove comprai un appartamento. Avrei potuto optare anche per “Kreuzberg” ma l’ovest io già lo conoscevo bene, vi avevo sempre vissuto. “Friedrichshain” nel 1989/90 non era bello e alla moda come oggi. Non c’era un panettiere, una macelleria o un telefono, niente! Le differenze con New York erano enormi. Se avessi avuto bisogno di chiodi o di viti mi sarei dovuto recare nella parte ovest, allora un altro Paese. Questa era la parte emozionante, che mi ha influenzato enormemente. É stato molto divertente. Sono stato uno dei primi a venire qui, un pioniere. Tutti gli occidentali venivano osservati in maniera strana, se si stabilivano nell’est, soprattutto perché la maggioranza erano quelli dell’est che emigravano, fuggivano ad ovest principalmente in Baviera e nella zona di Stoccarda, abbandonando tutti i loro beni. Pensavano che con me c’era qualcosa che non andasse. Credevano che venissi dagli Stati Uniti. Era come se fosse penetrato un nemico di classe, un capitalista. Qui erano rimaste le persone fedeli al regime. Mi sembra ancora come se fosse ieri eppure sono trascorsi 20 anni. È cambiato quasi tutto e molto finisce nel dimenticatoio. Per fortuna ho il mio archivio fotografico.
Come le è venuta l’idea di fondare “East Side Gallery”?
Non è stata un’idea, è semplicemente accaduto, in modo del tutto spontaneo. Eravamo un ristretto numero di persone, che hanno iniziato a dipingere il Muro dalla parte est. Il nome “East Side Gallery” ancora non esisteva. Allora ci sentivamo tutti pervasi dall’euforia che aleggiava intorno a noi. Si sentiva nell’aria. Abbiamo goduto il superamento della divisione come in uno stato d’estasi. Per me è stata una novità poter toccare il Muro dalla parte est. Anche gli abitanti della DDR non hanno mai potuto farlo. Così abbiamo iniziato a dipingere la striscia di Muro vicino al ponte “Oberbaumbrücke” in direzione della stazione “Ostbahnhof”. Credevamo che sarebbe stata una cosa temporanea, che anche quella striscia di Muro sarebbe stata abbattuta. Mai avremmo pensato che, dopo un paio di mesi, sarebbe stata posta sotto tutela nazionale e che sarebbe divenuta la più grande galleria all’aperto del mondo. Non lo sapevamo e non era nostra intenzione. È semplicemente accaduto. Ciò ha cambiato la vita di molti artisti compresa la mia.
Nella sua vita ha conosciuto personalità del calibro di Helmut Kohl, Miklós Németh, Adrienne Clarkson, Simeone di Sassonia-Coburgo-Gotha. Ha qualche aneddoto da raccontare?
Sì, con l’ex primo ministro e re della Bulgaria Simeone di Sassonia-Coburgo-Gotha. Ero stato invitato presso l’ambasciata bulgara ad un evento in presenza del re. Ho iniziato a discutere con lui del più e del meno. Parlava un buonissimo tedesco. Ad un certo punto gli ho detto che anche la mia famiglia proveniva dalla zona di Coburgo. Lui ha risposto: “Allora siamo parenti, signor Schaefer!“. Impulsivamente ho ribattuto: “una volta questo legame di parentela tra sovrani e popolo si chiamava servitù!”. Abbiamo riso tutte e due di cuore. Dietro di me un mio amico mi ha rimproverato: “Non puoi rivolgerti così ad un re!”. Per me non era successo niente di grave, anzi era stato forse l’unico momento in cui il re si era realmente divertito e rilassato. Il caso per me era chiuso. Sono stato comunque ancora un po’ criticato. Una settimana più tardi aprendo la cassetta della posta, trovai una lettera con il timbro di Sofia. Dentro c’erano i ringraziamenti scritti a mano da Simeone di Sassonia per il bell’incontro. Anche queste personalità sono persone normalissime.
E Helmut Kohl?
Helmut Kohl aveva un sorprendente senso dell’umore, soprattutto a quattr’occhi, lontano dagli incontri ufficiali senza la stampa che gironzola attorno. Non l’avrei mai creduto. Helmut Kohl è tutto tranne quello che appare nei media. È stata una bella esperienza poterlo conoscere.
Guardando una foto è possibile riconoscere se è stata scattata da un uomo o da una donna?
A volte. Fondamentalmente vi sono delle calligrafie nella fotografia. Nella pittura si può anche affermare se il quadro è stato realizzato da un mancino o da un destrimano. Nella fotografia certi particolari sono difficilissimi da riconoscere. Foto di bambini come quelli di Annie Leibovitz sono momenti prettamente femminili. Quello di farsi strada con i gomiti e la rudezza che si ha bisogno nei duri reportage di guerra sono caratteristiche prevalentemente maschili. Anche se bisogna aggiungere che le poche fotografe che scelgono il reportage di guerra molto volte sono superiori ai loro colleghi uomini.
L’arte in generale e la fotografia, in questo caso, possono cambiare il mondo? O la fotografia ha solo la funzione di documentare/raccontare ciò che accade nel mondo?
La fotografia e i video hanno già cambiato il mondo. Il potere dei media può influenzare quotidianamente il flusso degli eventi. Bisogna considerare che la politica lascia dirigere il proprio operato attraverso i media. E quindi si attua un cambiamento attraverso i media. La pubblicità cambia il mondo costantemente.
Lei ha viaggiato tantissimo, come Chicago, Mosca, Parigi, Gerusalemme, Praga, Tripoli, Beirut, New York. Quale città l’ha colpita particolarmente?
Roma. Avevo questa opinione ancor prima di divenire fotografo. Lì c’è la base della nostra cultura. Ci sono tantissime altre città ma al primo posto c’è la capitale d’Italia. Gerusalemme mi ha colpito molto. Ma lì vi sono troppe cose a me estranee. A Roma, invece, è tutto familiare. Amo il suono della lingua italiana.
Lei è stato ricevuto da Papa Benedetto. Quali sono state le sue impressioni?
L’incontro è stato molto breve e conciso. Già il suo predecessore aveva dichiarato che bisognava dare più attenzione agli artisti contemporanei. Io sono sempre stato molto critico nei confronti del Papa ma allo stesso tempo molto affascinato dalla sua figura. La visita è stata quasi surreale. Stavo di fronte al successore di Cristo? O era solo un tizio della Baviera, da dove provengo anch’io oppure era il successore della Santa Inquisizione? O semplicemente una gigantesca festa in costume? È probabilmente un po’ di tutto questo.
Quali sono i suoi progetti futuri?
Fino all’anno scorso sono stato membro del direttivo dell’iniziativa della “East-Side-Gallery”. Oggi sono un semplice membro. Voglio avere più libertà per altri progetti personali. Adesso mi stanno a cuore i cambiamenti in Medio Oriente. Con il mio lavoro mi sforzo si essere presente in Tunisia e in Egitto. A breve termine sto progettando un tour espositivo nel 2014 per i 25 anni della caduta del Muro. Mostrerò le foto scattate da me in vent’anni della Berlino riunificata e dei veloci cambiamenti della città in due decenni.
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